"the problems we all live with" di norman rockwell

sabato 21 settembre 2024

Veleno... e semi per un esame di coscienza

Dopo molto tempo dalla sua uscita mi sono deciso ad ascoltare "Veleno", il podcast di Pablo Trincia che offre una ricostruzione giornalistica della vicenda dei c.d. "diavoli della bassa modenese".


Occupandomi tutti i giorni da oltre dieci anni di maltrattamenti e abusi sento il bisogno di non affondare continuamente i miei pensieri in queste vicende dolorose e inoltre sono diffidente dalle narrazioni mediatiche: troppo spesso ho letto cose imprecise o ingannevoli nei resoconti giudiziari di procedimenti di cui conoscevo le carte.


Scherzando, cito sempre l'acida battuta di Stefano Benni: "era scritto sul giornale, ma era vero.."


Questa prevenzione personale unita al pregiudizio è naturalmente una forma di protezione che rischia di non farmi mettere in discussione e quindi ho voluto uscire da questo spazio di comfort per ascoltare la narrazione di una vicenda che tra l'altro aveva coinvolto un territorio e degli uffici giudiziari che ho conosciuto personalmente, seppure molti anni dopo i fatti e i processi di cui il podcast si occupa (sono stato pubblico ministero a Modena dal 2012 al 2019).


Devo dire che si tratta di un prodotto ben confezionato e che - al di là di qualche concessione a uno stile enfatico e suggestivo che per ragioni professionali non amo - mi pare frutto di un metodo corretto, fatto di studio delle carte, ricerca di documenti e consultazione di testimoni ed esperti che possano rappresentare i diversi punti di vista.


Non intendo dire la mia su quelle vicende: il fatto che il podcast sia interessante e ben strutturato non può dare a nessuno la presunzione di aver capito la verità o di poter giudicare il lavoro di altri.


Vorrei però fare alcune riflessioni come magistrato e soprattutto come pubblico ministero che si occupa da anni anche di ascoltare il racconto di minori maltrattati o abusati.


1) Vicende così complesse dovrebbero essere oggetto e occasione di riflessione e studio retrospettivo anche all'interno della nostra categoria, non certo per fare un processo al processo o ai loro protagonisti, ma perché diventino esperienza condivisa rispetto a dinamiche così delicate nella raccolta dei ricordi e delle prove. La mia categoria tende invece ad arroccarsi, preoccupata di non diventare capro espiatorio di (presunti) errori. Questa chiusura ci impedisce di maturare e di aprirci al dialogo con gli altri professionisti (avvocati, psicologi, psichiatri, medici legali) e non ci aiuta a stare al passo con l'evoluzione delle scienze forensi. L'autoreferenzialità ci impedisce di imparare dai nostri sbagli e ci condanna a reiterarli.


2) Oggi c'è moltissima attenzione su questi temi e assistiamo anche ad un grande sforzo di formazione e preparazione dei magistrati e di tutti gli altri operatori. La scienza giuridica e la psicologia forense hanno fatto passi da gigante e questo è certamente un bene, ma non vuol dire affatto che basti e che non vi sia comunque e sempre un bisogno di migliorare e di crescere, anzi.. Ancora troppo spesso si possono osservare vicende processuali non gestite con le migliori buone prassi investigative e psicologiche, ovvero chi ne è incaricato non di rado non ha abbastanza esperienza sul campo.

Io per primo mi rendo conto che solo da alcuni anni ho maturato non dico un'assoluta padronanza dei metodi di ascolto e di indagine, ma perlomeno una certa consapevolezza delle criticità e delle attenzioni che devo avere per cercare la verità, nel massimo rispetto dei diritti e scongiurando quanto più possibile ogni danno collaterale verso vittime, testimoni e indagati (presunti non colpevoli sino alla fine).

Mi occupai insieme a tante altre bravissime colleghe delle indagini sulla scomparsa della piccola Denise a Mazara del Vallo (eravamo allora la più giovane procura d'Italia). Ciò che rimpiango di più è che non ci fosse un contesto di esperienze e di affiancamento di professionisti strutturati che ci potesse coadiuvare nella gestione di una vicenda tanto difficile e stratificata, per di più in un territorio a noi poco conosciuto e che presentava elementi di opacità del tutto peculiari.

Invece che fare i quarti gradi ad uso e consumo di qualche applauso mediatico o per puntare il dito contro questo o quello, credo che sarebbe assai più interessante e soprattutto utile riflettere (come categoria ma anche pubblicamente e politicamente) su cosa si può imparare da certe vicende e su come garantire che questo tipo di inchieste possa essere gestito con la massima professionalità in futuro (considerato che non sappiamo mai quando e dove accadrà il prossimo mistero). Avrei molto da dire e suggerire su questo, ma ci porterebbe lontano..


3) Ancora oggi abbiamo la grande difficoltà di mediare tra la giusta preoccupazione per dei fenomeni criminali reali e pericolosi e la necessità di svolgere accertamenti nel massimo rispetto di tutte le persone coinvolte, con prudenza e vorrei dire gentilezza. Una cosa che ho compreso è che anche quando non è ancora chiaro cosa sia accaduto, se arriva sul mio tavolo una segnalazione per possibili abusi e maltrattamenti quel che è certo è che lì ci sia delle sofferenza e del disagio e quindi bisogna muoversi con attenzione, tempestività ma anche grande delicatezza. Si tratta di un equilibrio pressoché impossibile ma cui è importante tendere e che dobbiamo sforzarci di trasmettere a tutti i soggetti coinvolti, penso anzitutto ai difensori (degli indagati ma anche delle vittime), alla polizia giudiziaria che ci accompagna nelle indagini sino ad arrivare agli operatori sociali e ai consulenti di ogni parte che vengono coinvolti.

L'ansia è nemica della lucidità e il pregiudizio rischia di farci svolgere accertamenti superficiali e di non coltivare due doti essenziali per avvicinarsi alla realtà dei fatti: prestare attenzione e coltivare il dubbio per verificare ogni passaggio.


4) Va tenuto distinto l'ambito dell'accertamento in sede penale - che richiede le più alte garanzie di difesa e il più difficile standard di prova, ovvero la dimostrazione di un fatto al di là di ogni ragionevole dubbio - da quelli che sono invece i procedimenti civili e le vicende amministrative legate all'affidamento dei minori. Ovvio che a fronte di possibili reati vi sono ricadute e interferenze, ma non devono esserci automatismi e vanno tenuti sempre chiari a tutti i diversi compiti e i rispettivi limiti di ogni ambito. In ogni caso non va perso di vista un principio di fondo: non ci occupiamo di giudicare le persone e di decidere sulle loro vite. si valutano e giudicano "solo" le condotte delle persone, cosa ben diversa...


5) Confrontarci con complesse vicende del passato è un'operazione utile se fatta con l'obiettivo di comprendere, imparare e anche di spiegare a chi non conosce le procedure cosa sia accaduto e come sia stato possibile. Certo, le sentenze irrevocabili sono dei pilastri importanti, ma non possono neanche l'unico elemento di conoscenza o dei totem intoccabili, soprattutto quando i filoni processuali collegati sono molteplici e non tutti si sono conclusi in modo coerente..


Noi magistrati abbiamo il dovere di parlare in relazione a vicende specifiche solo attraverso i nostri atti. Sarebbe assai inopportuno che un magistrato commentasse il lavoro e le decisioni di altri, peraltro ovviamente non potendone conoscere tutte le carte..

Quello che però possiamo e dobbiamo fare è una riflessione più generale sul percorso processuale, sui metodi investigativi, sulle ricadute sociali e mediatiche. perché una sentenza passato in giudicato è un approdo pressoché irremovibile, ma in gioco c'è anche la credibilità dei magistrati e delle giustizia, un valore fondamentale per la tenuta della coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni democratiche.


Trasparenza, dialogo e confronto sono momenti importanti per seminare e coltivare questa fiducia, di cui la giustizia ha un bisogno tremendo per dare risposte corrette, concrete ed effettive a tutte le persone.

venerdì 2 agosto 2024

ALLA RICERCA DI UNA MEMORIA COLLETTIVA

Il 2 agosto di 44 anni fa nella Stazione di Bologna 85 persone venivano uccise e oltre 200 ferite nel più grave attentato terroristico del dopoguerra italiano.

In questo Paese siamo affezionati alla retorica dei misteri irrisolti, anche quando alcune risposte giudiziarie e storiche sono arrivate, ma forse questo costringerebbe da un lato a fare i conti con i fatti accertati e dall’altro a non potersi più accontentare di retorica e slogan, merce assai più facile da vendere al mercato delle opinioni sui media.

A un certo punto del suo intervento Francesco Crispi aveva detto: penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come sono avvenute. Si preparava così a governare l’Italia” (L. Sciascia)

Proviamo a mettere ordine in modo sintetico ai capitoli giudiziari di questa vicenda.

Il primo processo (terminato nel 1995) è quello che portava alle condanne all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, dei neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, appartenenti ai NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari furono un’organizzazione terroristica italiana neofascista di estrema destra). Contestualmente venivano condannati per depistaggio l’ex leader della loggia massonica P2 Licio Gelli, due ufficiali del SISMI (Servizio Informazione Sicurezza Militare, il servizio segreto dello Stato italiano) ed il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI stesso).

Nel secondo processo, terminato nel 2007, è stato condannato quale esecutore materiale Luigi Ciavardini, altro esponente dei NAR, mentre il terzo capitolo giudiziario è quello che ha visto la condanna di Gilberto Cavallini nel 2020, anch’egli legato ai NAR. Durante questo terzo processo erano emersi possibili elementi di contatto fra i NAR ed i servizi segreti italiani, come dei numeri di telefono annotati da Cavallini riconducibili a una struttura del SISDE, e la presenza di due covi dei NAR in via Gradoli a Roma, dove durante il rapimento Moro erano basate le Brigate Rosse di Moretti, in entrambi i casi in stabili di proprietà di agenzie immobiliari collegate al SISDE.

Nelle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna veniva riconosciuto che i servizi segreti deviati e la P2 avevano avuto un coinvolgimento diretto nella pianificazione della strage: si era trattato di “un’operazione complessa con una micidiale sinergia volta a destabilizzare l’ordinamento democratico”.

Il quarto ed ultimo processo ha appena visto (lo scorso 8 luglio 2024) la conferma della condanna di Giovanni Bellini all’ergastolo da parte della Corte d’Assise d’Appello. L’indagine è stata condotta dalla Procura Generale di Bologna che aveva avocato questo ennesimo filone, ritenendo che Bellini (ex di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata nel 1960 e disciolta formalmente nel 1976) fosse stato tra gli esecutori della strage e avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, oltre agli ex NAR già condannati: tesi accolta in primo e secondo grado.

Bellini è una figura paradigmatica degli intrecci delle trame più oscure che hanno attraversato la storia criminale del potere in Italia: militante neofascista di Avanguardia Nazionale, ladro, assassino del giovane Alceste Campanile di Lotta Continua, latitante, infiltrato in Cosa Nostra, killer della ‘ndrangheta… indagato dalle Procure di Firenze e Caltanissetta per le stragi del 1993,

Come ha scritto Gianni Barbacetto su Il Foglio Quotidiano, questa sentenza “consolida la lettura della strage come progetto dell’intera galassia della destra neofascista”.

Il ruolo di Licio Gelli, seppure oggetto di un accertamento per così dire incidentale, non è solo quello di un depistatore, bensì di colui che diede l’impulso iniziale e fondamentale. Non è un dettaglio secondario, considerato l’elenco imbarazzante di politici, imprenditori,  militari, membri dei servizi segreti e diplomatici iscritti alla loggia P2 (elenco scoperto da Gherardo Colombo il 17 marzo 1981 nell’ambito delle indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona, ovvero il banchiere e faccendiere riconosciuto come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, a proposito di intrecci torbidi…).

La recente sentenza bolognese evoca un “diritto soggettivo alla verità” che interpella tutti i cittadini nel chiederne il rispetto, ma soprattutto delinea un dovere di ricerca per le istituzioni e tra queste in primis per la magistratura.

Forse vorremmo vedere ancora “tutto più chiaro che qui” (come cantava De Gregori), ma gli approdi processuali di questa grave e cruciale pagina della storia italiana non sono briciole di cui accontentarsi, ma mattoni importanti di un percorso che peraltro non può essere delegato solo alle sentenze, ma che dovrebbe essere un patrimonio di ricostruzione della memoria collettiva condivisa.

ll ricordare è più di un semplice riepilogo e catalogo di fatti. I ricordi che i gruppi sociali si tramandano influenzano la nostra identità sia come singoli, sia come comunità e, nel loro complesso, vengono chiamati "memoria collettiva"” (https://www.geopop.it/cose-la-memoria-collettiva-e-perche-abbiamo-bisogno-di-ricordare-insieme/) 

Le sentenze della magistratura italiana, e tra queste quelle che hanno riconosciuto la responsabilità di Bellini, assumono un ruolo importante per la faticosa e necessaria ricostruzione di questa memoria collettiva.

Non ci sono quindi solo i misteri e la retorica di una verità inaccessibile, bensì un cammino faticoso ma ostinato per dare nomi alle responsabilità e per aiutarci a comprendere sempre di più le trame oscure della nostra storia (sul tema suggerisco la puntata finale de “Il buco nero”, di Flavio Tranquillo, https://video.sky.it/news/cronaca/video/il-buco-nero-puntata-8-conclusione-886673).

E come non dubitare che processi come quelli istruiti dalle Procure di Bologna e celebrati dalle Corti d’Assise non si sarebbero realizzati senza uffici del Pubblico Ministero davvero indipendenti e al tempo stesso ancorati alla cultura della giurisdizione che caratterizza la magistratura disegnata dalla Corte Costituzionale.

Forse anche questa è una delle tante riflessioni che dovremmo fare, con gratitudine verso quella parte della magistratura che ha assolto il suo compito ma anche sentendoci tutti interpellati da questo diritto-dovere alla verità.

domenica 8 ottobre 2023

Ci sono dei limiti alla manifestazione del pensiero da parte dei magistrati?


Ci sono dei limiti alle manifestazioni del pensiero da parte dei magistrati? E quali sarebbero?
Queste domande si sono sempre poste, dovendo garantire l’indipendenza e la separazione della magistratura dalla politica, ma al contempo tutelare i diritti costituzionali dei singoli magistrati, che vincendo il concorso non perdono certamente in automatico le loro prerogative di cittadini.

La vicenda di questi giorni ha dei contorni molto precisi se solo si cerca di ricostruirla con lucidità e non si corre dietro alla narrazione mediatica.
La collega non ha convalidato dei fermi disposti sulla base della nuova normativa in materia di immigrazione, motivando in punto di violazione degli obblighi internazionali e quindi anche dell’art. 10 della Costituzione. Se a qualcuno interessasse il merito della decisioni e i principi in gioco (ma è un grosso se, temo…), si può documentare: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritti-umani/2912-difetto-di-motivazione-questa-la-ragione-della-non-convalida-dei-provvedimenti-di-trattenimento-del-questore-di-ragusa

A quel punto la giudice è stata oggetto di attacchi anche sui social, venendo accusata di aver usato la sua funzione giurisdizionale di fatto come strumento di reazione politica. Ipotesi assai grave e che però, come dimostra l’articolo sopra citato, è priva di fondamento, essendo la decisione fondata su questioni giuridiche (e non su opinioni personali)
Il fatto che sia una decisione sgradita al Governo non la rende una decisione di natura politica: politiche possono essere eventualmente (e forse inevitabilmente) le ricadute della decisione stessa, ma questo non può e non deve influenzare il magistrato che applica la legge, ancor più se in ballo ci sono principi fondamentali e costituzionali come la tutela della libertà personale e il rispetto degli obblighi internazionali.
Attenzione: non è in discussione la possibilità di discutere del merito della decisione del giudice, contro cui peraltro si potranno anche azionare i ricorsi previsti dalla legge. Quel che non è invece accettabile e normale di un sistema democratico è vedere l’attacco all’esercizio della giurisdizione in quanto tale e nella misura in cui questo si manifesta in modo non gradito al potere politico. Questa non è più legittima critica ma diventa espressione di insofferenza verso l’indipendenza della magistratura, che dei sistemi democratici è appendice necessaria e ineludibile.

Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere” (Lord Bingham, presidente del British Institute of International and Comparative Law”

La mancanza di argomenti sostanziali contro il provvedimento del Tribunale di Catania mi pare dimostrata da quanto è accaduto in seguito.
L’attacco è diventato ad personam, si è cercato di delegittimare il magistrato, tra l’altro approfittando di uno spaventoso squilibrio di accesso ai media, ovviamente… sino a ripescare un video nel quale la collega di Catania aveva partecipato a una manifestazione in favore dei diritti dei migranti. 

Un ottimo articolo di Armando Spataro su La Stampa ha già illustrato come tale partecipazione è stata strumentalizzata e manipolata, per una serie di ragioni: l’evento vedeva coinvolte anche associazioni cattoliche e moderate avendo carattere più strettamente umanitario che politico ed inoltre la giudice non ha minimamente condiviso i comportamenti di qualche frangia più provocatoria ed aggressiva.
Se questo è il quadro, ed è perciò evidente la chiave propagandistica della polemica innescata ai danni della collega, tuttavia non possiamo non cogliere l’occasione per riflettere se il diritto dei magistrati a manifestare le proprie opinioni non debba incontrare degli argini di opportunità per non intaccare l’immagine di indipendenza e terzietà dell’intero ordine giudiziario.

Se certamente tale diritto diritto costituzionale deve essere difeso difeso da attacchi strumentali come quelli che stiamo osservando in questi giorni, ciò non toglie che vi sia l’assoluta esigenza che il magistrato eserciti il proprio legittimo diritto individuale con particolare equilibrio e sobrietà, tenendo anche conto che viviamo nell’era dei social e dell’eterna diretta (che sia a causa di un Grande Fratello o di un privato telefonino ormai onnipresente a immortalare ogni nostro starnuto...).
Non credo che si possa immaginare di risolvere la questione con qualche regoletta, anche perché rischieremmo di avvallare gli appetiti di un potere politico che va cercando pretesti per silenziare e burocratizzare la magistratura, cavalcando la retorica complottista di giudici presunti politicizzati che cercherebbero di ostacolare il coraggioso manovratore.

La realtà è che ben pochi sono i cittadini che hanno la voglia e la pazienza di approfondire e capire il merito della questione; temo che la stragrande maggioranza della massa non abbia la fiducia per poter ascoltare una vera discussione e si limiti o a disinteressarsi della questione o ad applaudire allo slogan della parte politica di appartenenza, in una logica di tifo che fa del pregiudizio il piedistallo su cui ergersi per giudicare cose che non si conoscono e tanto meno si capiscono (come un tifoso che dall’ultima fila del terzo anello vede cadere l’attaccante della propria squadra a 200 metri di distanza e urla immediatamente al rigore, immaginando che l’arbitro, a pochi metri dai fatti, decida in mala fede nella misura in cui non gli dà ragione...).

Se questa è l’umore della piazza, noi magistrati il problema di recuperare credibilità e fiducia e di proteggere la nostra autorevolezza dobbiamo porcelo, proprio esercitando le virtù dell’equilibrio e della sobrietà.  
Dovremmo evitare tutte quelle situazioni e iniziative che (ex ante...) si prestano ad essere bollate come faziose e che possono ledere alla nostra immagine di imparzialità. E questa attenzione si impone con maggiore prudenza e rigore se esiste la possibilità che ci dovremo pronunciare nell’esercizio della nostra giurisdizione su quel particolare argomento. 
L’astratta tutela a oltranza della nostra libertà individuale di manifestare il pensiero rischia di affermarsi a discapito della fiducia e della credibilità della magistratura, che deve cercare di resistere allo tsunami dei tweet, dei tiktok, dei talk show urlati, degli haters, della propaganda social e delle battute da bar... (che ci sono sempre state, ma che non venivano viste e condivise da centinaia di migliaia di persone in poche secondi)

L’ex magistrato ed ex onorevole Luciano Violante ha osservato in questi giorni che la collega non avrebbe dovuto partecipare all’evento in questione. Non è forse un caso che lo dica proprio colui che aveva teorizzato che i magistrati dovessero essere leoni, ma leoni sotto al trono (e quindi ubbidienti e al servizio del superiore potere politico). Credo che Trump e Netanyahu sarebbero d’accordo lui..

Ebbene, questo paradigma è incostituzionale, perché i giudici e i pubblici ministeri devono essere soggetti solo alla legge e hanno anzi il dovere di vigilare che tutte le leggi rispettino i principi costituzionali, cui anche il governo e la maggioranza devono ossequio. Per svolgere questo delicato e importante ruolo, la magistratura dovrà però saper difendere (o forse dovrei dire riconquistare) la propria credibilità agli occhi dei cittadini, anche a costo di qualche esercizio di prudenza in più.

giovedì 8 settembre 2022

Cronache dalla trincea del codice rosso: tra storytelling, contrasto e prevenzione

 

Occupandomi ogni giorno da molti anni di contrasto alla violenza di genere, mi lascia amareggiato constatare il modo in cui questo grave fenomeno viene narrato dai media. 

L'enfasi sulle storie finite male e la miscela di qualunquismo e morbosità che spesso caratterizzano questo tipo di cronaca, non solo non aiutano a comprendere cosa è accaduto e come si è giunti a quei drammatici epiloghi, ma finisce anche per alimentare (spesso molto ingiustamente) il circuito vizioso di sfiducia verso le istituzioni che rappresenta una delle ragioni che inducono le donne a non denunciare.

Sappiamo quanto una brutta notizia, che specula su un dramma e cerca un facile capro espiatorio, attiri molta più attenzione di una riflessione equilibrata che prova invece a entrare nelle pieghe del fenomeno per comprendere cosa non abbia funzionato o cosa si debba fare di più.

Sono un pubblico ministero e quindi la mia prospettiva è quella del processo penale. Limitare la discussione agli strumenti del diritto penale è però uno dei grandi problemi del dibattito pubblico rispetto a un fenomeno che ha molte sfaccettature psicologiche,  sociali culturali e anche economiche. La risposta a questo terribile problema della nostra società deve quindi essere anzitutto culturale, educativa, politica: dobbiamo prevenire mediante l'educazione e il diffondersi di una diversa culturale delle relazioni, dobbiamo promuovere l'emancipazione anche economica delle donne e le pari opportunità, dobbiamo sostenere le situazioni di disagio rafforzando le reti territoriali, dobbiamo comprendere le ragioni del diffuso abuso di alcol e stupefacenti e contrastarlo perché spessissimo alcolici e droghe sono elementi che fanno deflagrare le violenze. Immaginare di risolvere il problema aumentando le pene e usando solo la leva della sanzione penale è una grave ingenuità, utile solo alla propaganda

Tornando però intanto a ragionare nell'ambito del processo penale, va riconosciuto che non mancano gli strumenti volti a tutelare vittime e che quindi molto spesso possiamo avere la capacità di fermare ovvero impedire ulteriori fatti di stalking o maltrattamento... ma resta il fatto che il procedimento penale riguarda l'accertamento e la punizione di fatti di reato già commessi e non è uno strumento volto alla prevenzione (perlomeno fino a che non si realizzerà la cupa profezia di "minority report").

Può accadere che, nonostante sia stata presentata una denuncia, non ci siano però i presupposti per attivare una misura cautelare, ovvero una misura di protezione della vittima e di limitazione dell'indagato (tipicamente un divieto di avvicinamento o un allontanamento dalla casa famigliare, sino ad arrivare agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare in carcere nei casi più gravi). Se non abbiamo raccolto gravi indizi di colpevolezza e se non vi sono elementi concreti che fanno ritenere attuale un rischio di reiterazione, non possiamo infatti ottenere misure. Vero è che la sola dichiarazione della vittima può essere sufficiente, ma in molti altri casi è indispensabile consolidare tale versione con riscontri obiettivi o testimoniali. Soprattutto non sempre nella vicenda emergono elementi che consentano di ritenere concreto e attuale il rischio di reiterazione. 

Va tenuto presente che in un ufficio come Bologna, tanto per fare l'esempio che conosco, ogni giorno arrivano mediamente 7/8 notizie di reato relative a maltrattamenti, stalking e altri reati di codice rosso. Il nostro dovere è occuparci di ogni fatto con attenzione, verificarne la fondatezza e filtrarne anche la gravità (come in un triage del pronto soccorso): le misure cautelari, rappresentando delle limitazioni della libertà di persone indagate ancora presunte non colpevoli (sulla base di un principio costituzionale essenziale del nostro stato di diritto), non possono applicarsi automaticamente o in modo indiscriminato (sarebbe come pretendere che tutte le persone che si recano al pronto soccorso debbano essere trattate con la medesima urgenza e coi medesimi strumenti; il risultato sarebbe quello di non curare adeguatamente i casi, ingolfando il sistema e producendo inefficienze ed errori).

Questo non vuol dire affatto che all'interno del procedimento penale non vi siano già degli ottimi strumenti per intervenire: infatti ogni settimana eseguiamo numerose misure cautelari e trattiamo positivamente decine di denunce anche senza fare arrivare a limitazioni preventive della libertà personaleNella mia esperienza quasi ventennale ho trattato migliaia di casi e non mi è mai capitato che accadesse l'irreparabile durante l'indagini e questo vale per la stragrande maggioranza dei magistrati impegnati su questo fronte insieme alle forze dell'ordine.

C'è un enorme foresta che cresce, fatta di procedimenti positivi, nei quali la vittima trova una risposta e le violenze vengono interrotte e poi sanzionate. Queste storie non vengono quasi mai raccontate, anche per ragioni di segretezza investigativa oltre che di privacy... Limitare la narrazione collettiva e pubblica alle vicende finite male offre una visione deformata e mistificante del lavoro di contrasto che viene fatto e che è nella gran parte dei casi positivo e tempestivo.

Ogni femminicidio è inaccettabile e resta una ferita per la società e per il mondo della giustizia e delle forze dell'ordine. Ogni donna maltrattata deve interpellare la nostra coscienza su cosa possiamo fare di più e meglio per proteggere in particolare il mondo femminile. Però non cadiamo nell'errore del puntare sempre in automatico il dito contro qualcuno, perché così facendo spesso commetteremmo un errore e faremmo qualcosa di inutile per un verso e dannoso per un altro.

Potremmo commettere un errore perché, come detto, non sempre abbiamo gli strumenti per impedire nel contesto delle indagini eventi anomali e che non sono stati anticipati da segnali di allarme che ci hanno consentito di intervenire.

Faremmo qualcosa di inutile e dannoso perché diffondendo sfiducia e alimentando l'idea falsa e qualunquista che tanto le cose non funzionano, che non serva denunciare, che giustizia e forze dell'ordine non intervengono e non proteggono... stiamo facendo sentire più vulnerabili e isolate le vittime, che quindi non troveranno il coraggio di denunciare e chiedere aiuto. 

Ci possono essere dei casi di errore umano e di scarsa professionalità e quelli vanno naturalmente individuati, stigmatizzati e vi devono essere le conseguenze previste dall'ordinamento per chi ne ha responsabilità. Questo però non può travolgere il lavoro che ogni giorno centinaia di magistrati e migliaia di poliziotti, carabinieri, avvocati e altri operatori sociali mettono in campo per aiutare, sostenere, proteggere, intervenire. 

Come nel bullismo, spesso la sensazione di debolezza e di inevitabilità che travolge la vittima è un fattore determinante perché si protragga e si aggravi il contesto di violenza e prevaricazione. 

Dare fiducia che invece esiste una via d'uscita, che vi sono strumenti di protezione efficace, che lo Stato c'è e non si è soli: tutto ciò è determinante per far emergere le storie sommerse di violenza, intervenire, proteggere la persona offesa e sanzionare il colpevole. 

Cerchiamo di informarci e di informare allora in modo intelligente e completo, analizzando e non semplicemente puntando il faro su ciò che può far aumentare il numero di clic. In questo modo crescerebbe la consapevolezza e la comprensione del problema e da un dibattito più lucido e completo potranno scaturire strategie migliori (non solo nell'ambito del processo penale...!) per non lasciare sola nessuna donna vittima di violenza.


giovedì 9 giugno 2022

Quello che penso dei referendum sulla giustizia

 

Il 12 giugno si potrà votare referendum sulla giustizia approvati dalla Corte Costituzionale. 

A questo link trovate una sintetica ed efficace sintesi dei complessi quesiti al vaglio: 

https://www.sistemapenale.it/it/scheda/referendum-giustizia-guida-lettura-quesiti


Credo che il compito della magistratura in un simile frangente della vita democratica sia anzitutto (se non esclusivamente) quello di informare e spiegare significato e ricadute dell'eventuale abrogazione, affinché i cittadini possano prendere una scelta consapevole.


Per questo, sollecitato anche dalle richieste di un parere di tanti amici che comprensibilmente faticano a orientarsi su questi temi, provo qui a fare una sintesi delle questioni da decidere.


1) primo quesito, scheda rossa: abolizione legge Severino

Votando sì verrebbero abrogate le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali in seguito a condanne anche soltanto di primo grado per alcuni gravi reati.

Tale norma era stata sospettata di incostituzionalità per violazione del principio di presunzione di non colpevolezza, venendo tuttavia sempre salvata dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto tale disposizione diversa da una sanzione, trattandosi di tutelare i requisiti di dignità ed onore che, anche ai sensi dell'art. 54 della Costituzione, i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche devono garantire.

L'abrogazione travolgerebbe anche l'incandidabilità dei politici condannati in via definitiva.


2) secondo quesito, scheda arancione: limiti all'utilizzo delle misure cautelari

I proponenti sostengono che sia un quesito contro gli abusi, ma ciò mi pare uno slittamento di senso, perché in realtà vengono cancellate delle norme e non certo l'abuso di queste, che dipende dal merito e dai casi specifici.

Premessa: le misure cautelari non sono e non devono essere anticipazioni della pena, ma limitazioni (eccezionali) della libertà dei soggetti indagati o imputati (ancora presunti non colpevoli) quando ricorrono due presupposti:

a) gravi indizi di colpevolezza per reati di una certa gravità stabiliti dal legislatore

b) sussistenza di esigenza cautelari

Le esigenze cautelari sono di tre tipi:

i) inquinamento probatorio (caso assai raro)

ii) rischio di fuga (che ricorre già con più frequenza, ma difficilissimo da ipotizzare e dimostrare a carico dei residenti in Italia)

iii) rischio di reiterazione di delitti della stessa specie --> questa è l'esigenza cautelare che sostiene la stragrande maggioranza delle misure che oggi vengono disposte

Il quesito vuole cancellare la possibilità di usare misure cautelari (custodia in carcere, arresti domiciliari, allontanamento dalla casa famigliare, divieto di avvicinamento, ecc...) per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, di eversione o commessi con armi o con violenza.

In pratica non sarà possibile disporre alcuna misura in una serie molto vasta di casi. Ecco qualche esempio dei casi più comuni che potremmo immaginare:

- furti (compresi quelli in abitazione) e altri reati contro patrimonio (salvo solo le rapine commesse con armi o violenza)

- spaccio di stupefacenti anche in quantità rilevanti (se non ricorre l'associazione)

- reati contro la Pubblica Amministrazione (corruzione, concussione, ecc..)

Vi è la possibilità che si ritengano non applicabili le misure cautelari anche ai casi di maltrattamenti e atti persecutori che non siano commessi con violenza fisica, sebbene si possa ricorrere a un concetto di violenza di genere più ampio; l'effetto concreto dovrà eventualmente misurarsi con la giurisprudenza.


3) terzo quesito, scheda gialla: separazione delle funzioni

Oggi la Costituzione stabilisce che si diventa magistrati tramite un unico concorso pubblico: successivamente il magistrato potrà scegliere se esercitare le funzioni di giudice (penale o civile) ovvero di pubblico ministero (colui che fa le indagini e sostiene l'accusa nei processi).

Oggi è possibile cambiare le funzioni, seppure con una serie di limitazioni: si possono cambiare per massimo 4 volte (ma la riforma Cartabia si propone già di ridurre le chance si cambiamento ad una sola!), devono passare almeno 4 anni tra un cambiamento e l'altro e tendenzialmente è necessario cambiare regione per poter cambiare funzione. Anche in virtù di questi numerosi paletti oggi esistenti, già adesso il cambiamento di funzioni è un fenomeno estremamente ridotto: negli ultimi 16 anni solo 39 colleghi hanno cambiato le funzioni due volte e solo un collega l'ha fatto quattro volte.

Chi sostiene la separazione delle funzioni mira alla separazione anche delle carriere, che dovrebbe vedere una modifica della Costituzione, ritenendo che solo questo assicurerebbe un giudice terzo. Chi difende le carriere unite sottolinea che è importante che anche il pubblico ministero condivida una forte cultura della giurisdizione e non finisca per perdere la sua indipendenza, che è posta a tutela dell'uguaglianza dei cittadini e non quale privilegio dello stesso.


4) quarto quesito, scheda grigia: valutazione professionale dei magistrati

Il quesito vuole consentire che anche gli avvocati partecipino alla valutazione dei magistrati nell'ambito dei Consigli Giudiziari, i quali redigono pareri che poi vengono definitivamente approvati dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Tutti i magistrati sono valutati ogni 4 anni per sette volte.

La trasparenza di queste valutazioni è sicuramente un'esigenza sentita e la ritengo un valore. Quello che mi preme sottolineare, lavorando da due anni proprio nel Consiglio Giudiziario di Bologna, è che il timore è che non cambierà nulla con questo referendum, che peraltro determinerebbe una modifica equivalente a quella che anche la riforma Cartabia prevede.

Dico questo per due ragioni:

- già adesso l'avvocatura potrebbe fare segnalazione di criticità relative al singolo magistrato, ma questo non avviene mai; la presenza al momento della valutazione allora rischia di assumere un significato più simbolico (o ideologico?) se non contribuisce ad aumentare gli elementi di conoscenza

- anche oggi il problema di far emergere gli eventuali profili critici di un magistrato non è tanto legato alla mancanza di volontà dei colleghi che devono valutare (che pure può essere un fattore, anche se non dovrebbe...), quanto soprattutto alla mancanza di fonti di conoscenza formali e utilizzabili che possano dimostrare quanto si vuole evidenziare

Il referendum, così come la riforma Cartabia, si pongono un obiettivo anche condivisibile, ma la soluzione è ideologica e semplicistica, mentre il tema delle valutazioni andrebbe affrontato nella sua complessità e con ben altre strategie.

Rischiamo, come al solito, di cambiare tutto perché le cose restino in realtà come sono (la valutazione dei magistrati introdotto dal 2006 è oggi un grande fardello burocratico che non produce gli effetti promessi e sperati)


5) quinto quesito, scheda verde: elezione dei componenti togati del CSM

Il referendum vuole abrogare l'obbligo di presentare 25 firme per potersi candidare al Consiglio Superiore della Magistratura (l'organo costituzionale di autogoverno).

L'obiettivo è quello di diminuire la forza delle correnti interne alla magistratura. Difficile che tale obiettivo possa realizzarsi: se un magistrato non riesce nemmeno ad avere il sostegno di 25 firme, come potrà essere eletto al posto di candidati che provengono da gruppi organizzati e radicati?

Gli scandali legati al CSM ci sono stati e sono una grave macchia di credibilità, ma non credo che possiamo pensare di risolverli così ovvero limitando la libertà di associazione (che è garantita dalla Costituzione).

Sono persuaso che il virus che ha prodotto degenerazioni interne è il carrierismo, ovvero l'inseguimento di incarichi direttivi, laddove la Costituzione vorrebbe i magistrati distinti solo per funzioni e senza gerarchie di altro genere.


Un'ultima riflessione.

Mentre nelle elezioni politiche andare a votare rappresenta un diritto\dovere e non votando di fatto si lascia la decisione agli altri, per i referendum i Costituenti hanno volutamente posto un quorum: se non vota il 50% + 1 degli aventi diritto il risultato non avrà alcun effetto.

La Costituzione ben conosceva i rischi del populismo e delle manipolazioni di regime e voleva evitare che tramite il referendum passassero questioni che non fossero effettivamente sentite come di ampia e grande rilevanza collettiva. Questo anche per impedire che i referendum non degenerassero in appelli a risposte binarie, poco adatte a risolvere questioni complesse e che richiedono discussioni approfondite e riforme articolate.

Per questo è legittima anche l'opzione di chi, ritenendo che si tratti di quesiti non chiari e non adatti allo strumento referendario, scelga di non partecipare al voto per non contribuire al raggiungimento del quorum.


La speranza è che, al di là degli esiti del referendum, si colga questo passaggio e la discussione sulla riforma Cartabia per un forte coinvolgimento dei cittadini sul tema giustizia, che da troppo tempo attende risposte efficaci e credibili.


sabato 30 aprile 2022

Recuperare credibilità e diventare parte del cambiamento

Scioperare o non scioperare contro la riforma della giustizia appena approvata dalla Camera?

Io sono convinto che sarebbe un errore scioperare, un ulteriore passo verso l’isolamento dal Paese. Un errore di metodo anzitutto, perché non aiuterebbe a spiegare le nostre ragioni fornendo facile occasione ai detrattori per strumentalizzare la polemica. Ma anche un errore di merito e di contenuto, perché la riforma ha limiti e difetti, ma non possiamo negare che affronti dei problemi reali.

Il rischio della magistratura non è semplicemente di non essere compresa, ma che gran parte dei cittadini pensino di aver invece capito benissimo, perché la perdita di fiducia e di credibilità è una ferita aperta ed è sotto gli occhi di chiunque li voglia aprire.

Il problema è che la fiducia non è un optional per chi fa il mestiere del giudice o del Pubblico Ministero; la credibilità per noi è una necessità.

Le leggi, così come le sentenze, sono pezzi di carta, inermi: è vero che ci sono i modi per far sanzionare le violazioni e far eseguire le decisioni, ma un sistema funziona e regge solo fino a quando la maggioranza è persuasa della sua legittimità.

Indubbiamente la riforma che verrà ora discussa in Senato presente dei rischi e delle criticità… soprattutto quelle magistralmente spiegate da Ferrarella in un articolo dei giorni scorsi sul Corriere della Sera: enfatizzare i numeri e il dato della tenuta delle decisioni e delle indagini può spingere verso un modello di magistrato timido, conformista, che cerca il consenso invece della verità processuale, che non osa innovare l’interpretazione, che evita l’indagine scomoda. In definitiva, un burocrate dedito al mero mantenimento dello status quo e non l’espressione autonoma e indipendente del potere giurisdizionale, un attore vivo della realizzazione del disegno costituzionale.

Questo grave rischio va spiegato e denunciato, ma è anche vero che il presente è pieno di problemi evidenti che da troppo tempo non abbiamo dimostrato di saper o di voler risolvere: il carrierismo, le degenerazioni correntizie, l’incapacità di far emergere le criticità al momento delle valutazioni di professionalità, un’organizzazione non sempre all’altezza…

Con atteggiamento di retroguardia, ci nascondiamo dietro a grandi ideali, dimenticando di assumerci le nostre responsabilità e di affrontare davvero le criticità che hanno minato la nostra credibilità.

Il “NO” non basta più… ed era prevedibile che intervenisse la politica, questa volta sulla spinta del PNRR.

Penso che parte della politica creda davvero che la riforma possa migliorare le cose, anche se certamente una componente non trascurabile è mossa anche da intenti punitivi e da un desiderio non troppo celato di “rimettere al suo posto” la magistratura dopo una lunga stagione di espansione della sua forza di intervento (o presunta tale).

Di fronte a questo scenario sono convinto che l’unica strada sia quella di raccogliere la sfida e portare proposte concrete, comunicando ai cittadini che non abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità e però chiediamo anche di essere messi in condizione di lavorare meglio e di difendere la nostra autonomia e indipendenza, perché queste ultime non sono privilegi di una casta ma garanzie indispensabili per i cittadini e per la piena affermazione dello stato di diritto.

E allora, invece dello sciopero, apriamo i nostri uffici, incontriamo i cittadini, dialoghiamo con l’avvocatura e tutta la società, spieghiamo le peculiarità e difficoltà del nostro lavoro, facciamoci promotori di proposte coraggiose di apertura e rinnovamento.

Qualche esempio?

1) accogliamo l’ingresso degli avvocati anche nelle sessioni dei Consigli Giudiziari che si occupano di valutazione di professionalità dei magistrati, chiedendo al tempo stesso che vengano ampliate e stimolate le fonti di conoscenza, perché altrimenti non riusciremo a far emergere il vero profilo

2) chiediamo noi per primi i numeri sulla tenuta delle nostre decisioni e delle nostre indagini nei tre gradi (la vera assurdità è che non li abbiamo mai avuti!), ma non (sol)tanto per dare un ulteriore elemento di conoscenza nel contesto della valutazione, ma soprattutto per conoscere meglio il nostro lavoro e migliorare con l’esperienza

3) chiediamo che venga smantellato il sistema di carriere interne che sta svuotando di significato l’enunciato costituzionale per cui dovremmo distinguerci solo per funzioni: meno posti direttivi e semidirettivi e soprattutto un tendenziale obbligo di tornare alle funzioni “semplici” dopo aver dato il proprio servizio negli incarichi dirigenziali e organizzativi

4) apriamo una grande discussione per migliorare il percorso che porta alla selezione e all’accesso in magistratura; oggi ci sono a mio modo di vedere almeno due grandi problemi da risolvere:

o   i tempi verso il traguardo finale del concorso sono tali da dare un vantaggio a chi proviene da famiglie più agiate che si possono sostenere gli studi e poi altri anni di tirocinio senza guadagni e con entrate del tutto modeste e precarie

o   la selezione è tutta focalizzata sulla preparazione giuridica e ciò non consente di esaminare altre doti essenziali per essere un buon magistrato, quali l’organizzazione, l’equilibrio, la capacità di lavorare in gruppo, ecc… (le c.d. “soft skills”)

Si potrebbe andare avanti ma sto già abusando della pazienza del lettore. Quello che però non possiamo fare è stare fermi o tornare indietro.

Il Paese ha bisogno di una magistratura responsabile, moderna, efficiente e assolutamente indipendente e autonoma dal potere politico.

Lo scandalo “Palamara” ha messo giustamente al centro le degenerazioni del nostro sistema di autogoverno, ma è allarmante notare che, sull’altro versante, la politica non abbia invece fatto alcun esame di coscienza, nonostante il fatto più grave emerso fosse probabilmente quello per cui alcuni politici stavano cercando di condizionare la scelta del dirigente della Procura di Roma…

Basterebbe questo a ricordarci e dimostrare quanto sia fondamentale garantire una piena autonomia di tutta la magistratura, compresi i pubblici ministeri, che sono il motore della giurisdizione penale e che devono essere liberi di fare un rigoroso controllo di legalità verso ogni forma di potere corrotto o criminale.

Ma per essere liberi, dobbiamo essere credibili e responsabili.

Perché “la libertà aumenta la responsabilità” (V. Hugo)