Dispiace particolarmente perché in passato la cosa non mi aveva stupito, ma da Roberto Saviano (di cui ho letto e apprezzato molti scritti) mi sarei aspettato maggiore equilibrio e senso delle istituzioni, anche se comprendo che in questi anni abbia vissuto una situazione difficilissima e sacrificato molto per il suo impegno contro la Camorra (e per questo continua ad andargli la mia solidarietà e il mio rispetto).
Legittimo dissentire e criticare, argomentando nel merito, ma fare riferimenti a una giustizia pavida ha intanto l'effetto di indebolire l'autorevolezza e la credibilità dell'intera magistratura.
Il diritto è nulla o quasi se non è circondato di rispetto e di fiducia, e questo vale anche per coloro che il diritto sono chiamati ad applicare, ovvero i magistrati.
La delusione per una sentenza che non si condivide dovrebbe essere messa in secondo piano da un uomo che tanto si sta impegnando per la lotta contro la criminalità in Italia, proprio perché per quella lotta la tenuta delle istituzioni e la fiducia nella magistratura non sono optional ma pietre angolari.
Diversamente facendo forniamo un facilissimo e inaccettabile assist ai delinquenti che potranno lamentarsi delle condanne ricevute invocando l'errore giudiziario o la persecuzione o la giustizia pavida proprio come quel magistrato o quel giornalista...
Certamente fiducia e autorevolezza non sono a credito infinito: istituzioni e magistratura devono guadagnarsele... ma è fondamentale per chi fa cultura della legalità (e per di più ha un enorme seguito...) seminare un atteggiamento positivo, che sappia andare oltre la singola delusione o le perplessità per un caso specifico, sapendo che i principi che le istituzioni difendono hanno un valore che trascende le persone che le incarnano.
Per dirla con un esempio più famigliare e quotidiano: quando si difende una decisione presa da un insegnante di nostro figlio lo si fa (quasi) a prescindere dal merito, perché quello che più preoccupa è che lui non perda fiducia nella maestra e continui a rispettare la scuola in senso ampio...
Ecco un interessante commento di una giornalista anche lei fatto oggetto di minacce come Saviano e che entra anche nel merito della vicenda traendone spunto per una riflessione più generale sull'immagine che abbiamo della mafia
dal sito de Il Messaggero
CARO SAVIANO, NON SONO D'ACCORDO
PER ME QUELLA SENTENZA E' GIUSTA
di Rosaria Capacchione
Mi è venuto in mente solo dopo, dopo la lettura del dispositivo. Ci ho pensato perché buona parte delle arringhe difensive erano state dedicate alla sterile discussione sulla parola “proclama”.
Termine che i giornali avevano utilizzato per definire l'istanza di legittima suspicione che tanti anni prima l'avvocato Santonastaso aveva letto nell'aula bunker del carcere di Poggioreale in difesa dei suoi clienti camorristi. Tutta la questione era sul parallelismo impossibile con i comunicati letti dalle Brigate Rosse detenute. Così quando, più tardi, il presidente Esposito ha letto il dispositivo della sentenza che condannava l'avvocato Michele Santonastaso e assolveva i suoi assistiti di altissimo rango mafioso, Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, ho ricordato un'intervista a Renato Curcio sul suo consenso all'omicidio di Aldo Moro.
Diceva, il capo storico delle Br, che quella morte aveva spiazzato i terroristi detenuti, che mai avevamo discusso dell'eventualità di uccidere il prigioniero; che, anzi, quella decisione li aveva lasciati perplessi. Ma che alla fine si erano associati per non dare l'idea di una spaccatura tra il mondo delle carceri e quello esterno: appartenendo loro al primo e non sapendo bene cosa accadesse nell'altro.
Poteva, quel parallelismo, essere applicato anche ai Casalesi detenuti e ai loro portavoce all'esterno? Poteva la minaccia declamata dall'avvocato Santonastaso - perché di minaccia si è trattato, ha stabilito il Tribunale, e non del legittimo, sia pur colorito, esercizio del diritto di difesa - essere una scelta autonoma del penalista e non, invece, il frutto di un accordo con i suoi clienti? E poteva essere comunque una minaccia mafiosa pur avendo escluso la complicità dei capi del clan? La sentenza ha detto che sì, che è possibile, che è così che è andata. E io, che di quelle minacce sono stata vittima, dico che è altamente probabile. Per una ragione tecnica e una sociologica.
La prima. Durante il dibattimento uno degli imputati, Antonio Iovine, diventato collaboratore di giustizia, ha parlato a lungo dei suoi rapporti con il difensore, l'avvocato Santonastaso. E ha detto di avergli affidato la cura delle sue cause perché era un giovane rampante e perché aveva i canali giusti per addomesticare le sentenze sfavorevoli. A lui aveva reso quel servizio in due occasioni, in cambio di denaro, molto denaro, destinato - a suo dire - al presidente della IV sezione di Assise di Appello di Napoli. Servizio importantissimo, perché si trattava di ribaltare due condanne per altrettanti omicidi che lui, Iovine, aveva effettivamente commesso.
Santonastaso aveva portato il risultato a casa ma il boss non aveva chiesto approfondimenti. Non gli interessava il canale ma solo l'assoluzione. L'avvocato, dunque, aveva un mandato aperto che esclude il rapporto di sudditanza tipico dei clan mafiosi a struttura verticistica. Aveva un rapporto fiduciario e da pari grado.
È vero? È senz'altro verosimile. Ritengo che il Tribunale abbia creduto a Iovine e, in fondo, allo stesso Bidognetti, che ha detto di non aver mai conosciuto, se non a cose fatte, il contenuto autentico di quell'istanza di legittima suspicione. Non poco, nella decisione, deve aver influito un elemento visibile sia pur extraprocessuale: Michele Santonastaso ha partecipato al dibattimento da detenuto, in virtù dell'accusa di associazione mafiosa contestatagli in un altro processo nel quale il pubblico ministero ha chiesto la sua condanna a 22 anni di carcere. Non esiste ancora una sentenza ma più giudicati cautelari hanno confermato il ritratto a tinte fosche che del penalista ha tracciato la Dda di Napoli.
Poi c'è l'altra questione, la lettura sociologica di quanto accadde il 13 marzo 2008 in un contesto che esula dalla visione tradizionale dei codici mafiosi ma guarda invece a quelle trasformazioni morfologiche del mafioso del terzo millennio. Contesto tutt'altro che semplice, tipico delle ambientazioni di Leonardo Sciascia (Todo modo, per esempio) con il quale, durante l'intero dibattimento, si era dovuto confrontare Antonello Ardituro, il magistrato che aveva portato in aula Santonastaso e due dei capi casalesi con l'accusa di aver esposto i colleghi Cantone e Cafiero de Raho, Roberto Saviano e la sottoscritta, a un grave rischio di morte.
Il fatto è che giornalisti e opinionisti, a partire da me, si affannano a parlare dell'avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; ma poi, quando si scontrano con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia non lo riconoscono. Quando lo incontrano cercano mille pretesti per non tributargli la patente di mafiosità. Vorrebbero che fosse armato e che parlasse lo slang casalese e che indossasse la vecchia divisa, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo visibile potere di minaccia. È anche per questo che quando una sentenza finisce per condannare il colletto bianco e assolvere i vecchi mafiosi, ci si straccia le vesti gridando alla giustizia negata.
Ma io, che quella vicenda ho vissuto da cronista e da parte del processo, penso che, aldilà dei tecnicismi giuridici e della capacità di resistenza della decisione in tutte le fasi del giudizio, la storia può essere andata davvero così. E che l'avvocato, quel giorno, per difendere i suoi clienti difese anche se stesso, che per una volta e nel processo più importante - quello che conosciamo con il nome di Spartacus - non era stato in grado di mantenere le promesse: perché uno scrittore aveva diffuso in tutto il mondo le gesta dei Casalesi (e per certe trattative sotterranee c'è bisogno di silenzio); perché due magistrati di Procura avevano ostinatamente difeso il ruolo dei collaboratori di giustizia; perché una giornalista non accomodante aveva dato voce ai sospetti sulla bontà di alcune sentenze emesse dal giudice che alla celebrazione di Spartacus doveva essere destinato e che invece fu costretto a rinunciare. Per la cronaca, lo stesso giudice di cui ha parlato Antonio Iovine.
Termine che i giornali avevano utilizzato per definire l'istanza di legittima suspicione che tanti anni prima l'avvocato Santonastaso aveva letto nell'aula bunker del carcere di Poggioreale in difesa dei suoi clienti camorristi. Tutta la questione era sul parallelismo impossibile con i comunicati letti dalle Brigate Rosse detenute. Così quando, più tardi, il presidente Esposito ha letto il dispositivo della sentenza che condannava l'avvocato Michele Santonastaso e assolveva i suoi assistiti di altissimo rango mafioso, Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, ho ricordato un'intervista a Renato Curcio sul suo consenso all'omicidio di Aldo Moro.
Diceva, il capo storico delle Br, che quella morte aveva spiazzato i terroristi detenuti, che mai avevamo discusso dell'eventualità di uccidere il prigioniero; che, anzi, quella decisione li aveva lasciati perplessi. Ma che alla fine si erano associati per non dare l'idea di una spaccatura tra il mondo delle carceri e quello esterno: appartenendo loro al primo e non sapendo bene cosa accadesse nell'altro.
Poteva, quel parallelismo, essere applicato anche ai Casalesi detenuti e ai loro portavoce all'esterno? Poteva la minaccia declamata dall'avvocato Santonastaso - perché di minaccia si è trattato, ha stabilito il Tribunale, e non del legittimo, sia pur colorito, esercizio del diritto di difesa - essere una scelta autonoma del penalista e non, invece, il frutto di un accordo con i suoi clienti? E poteva essere comunque una minaccia mafiosa pur avendo escluso la complicità dei capi del clan? La sentenza ha detto che sì, che è possibile, che è così che è andata. E io, che di quelle minacce sono stata vittima, dico che è altamente probabile. Per una ragione tecnica e una sociologica.
La prima. Durante il dibattimento uno degli imputati, Antonio Iovine, diventato collaboratore di giustizia, ha parlato a lungo dei suoi rapporti con il difensore, l'avvocato Santonastaso. E ha detto di avergli affidato la cura delle sue cause perché era un giovane rampante e perché aveva i canali giusti per addomesticare le sentenze sfavorevoli. A lui aveva reso quel servizio in due occasioni, in cambio di denaro, molto denaro, destinato - a suo dire - al presidente della IV sezione di Assise di Appello di Napoli. Servizio importantissimo, perché si trattava di ribaltare due condanne per altrettanti omicidi che lui, Iovine, aveva effettivamente commesso.
Santonastaso aveva portato il risultato a casa ma il boss non aveva chiesto approfondimenti. Non gli interessava il canale ma solo l'assoluzione. L'avvocato, dunque, aveva un mandato aperto che esclude il rapporto di sudditanza tipico dei clan mafiosi a struttura verticistica. Aveva un rapporto fiduciario e da pari grado.
È vero? È senz'altro verosimile. Ritengo che il Tribunale abbia creduto a Iovine e, in fondo, allo stesso Bidognetti, che ha detto di non aver mai conosciuto, se non a cose fatte, il contenuto autentico di quell'istanza di legittima suspicione. Non poco, nella decisione, deve aver influito un elemento visibile sia pur extraprocessuale: Michele Santonastaso ha partecipato al dibattimento da detenuto, in virtù dell'accusa di associazione mafiosa contestatagli in un altro processo nel quale il pubblico ministero ha chiesto la sua condanna a 22 anni di carcere. Non esiste ancora una sentenza ma più giudicati cautelari hanno confermato il ritratto a tinte fosche che del penalista ha tracciato la Dda di Napoli.
Poi c'è l'altra questione, la lettura sociologica di quanto accadde il 13 marzo 2008 in un contesto che esula dalla visione tradizionale dei codici mafiosi ma guarda invece a quelle trasformazioni morfologiche del mafioso del terzo millennio. Contesto tutt'altro che semplice, tipico delle ambientazioni di Leonardo Sciascia (Todo modo, per esempio) con il quale, durante l'intero dibattimento, si era dovuto confrontare Antonello Ardituro, il magistrato che aveva portato in aula Santonastaso e due dei capi casalesi con l'accusa di aver esposto i colleghi Cantone e Cafiero de Raho, Roberto Saviano e la sottoscritta, a un grave rischio di morte.
Il fatto è che giornalisti e opinionisti, a partire da me, si affannano a parlare dell'avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; ma poi, quando si scontrano con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia non lo riconoscono. Quando lo incontrano cercano mille pretesti per non tributargli la patente di mafiosità. Vorrebbero che fosse armato e che parlasse lo slang casalese e che indossasse la vecchia divisa, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo visibile potere di minaccia. È anche per questo che quando una sentenza finisce per condannare il colletto bianco e assolvere i vecchi mafiosi, ci si straccia le vesti gridando alla giustizia negata.
Ma io, che quella vicenda ho vissuto da cronista e da parte del processo, penso che, aldilà dei tecnicismi giuridici e della capacità di resistenza della decisione in tutte le fasi del giudizio, la storia può essere andata davvero così. E che l'avvocato, quel giorno, per difendere i suoi clienti difese anche se stesso, che per una volta e nel processo più importante - quello che conosciamo con il nome di Spartacus - non era stato in grado di mantenere le promesse: perché uno scrittore aveva diffuso in tutto il mondo le gesta dei Casalesi (e per certe trattative sotterranee c'è bisogno di silenzio); perché due magistrati di Procura avevano ostinatamente difeso il ruolo dei collaboratori di giustizia; perché una giornalista non accomodante aveva dato voce ai sospetti sulla bontà di alcune sentenze emesse dal giudice che alla celebrazione di Spartacus doveva essere destinato e che invece fu costretto a rinunciare. Per la cronaca, lo stesso giudice di cui ha parlato Antonio Iovine.
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