mercoledì 26 novembre 2014

La Magistratura, tra diritto e giustizia

Segnalo e incollo di seguito la riflessione del prof. Glauco Giostra comparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera: lettura fondamentale e molto ricca, non solo per chi lavora nella giustizia, ma anche per le premesse che spiegano il momento di crisi della fiducia nelle istituzioni e i conseguenti rischi.

In altro commento comparso su La Stampa, il prof. Grosso ha affermato, con riferimento diretto questa volta al caso Eternit) che la situazione straordinaria poteva consentire di addivenire ad una diversa interpretazione, evitando così che la prescrizione cancellasse la responsabilità per i migliaia di morti dell'amianto (su diritto penale contemporaneo trovate una rassegna dei commenti sulla vicenda Eternit, oltre a una discussione dei temi giuridici che hanno determinato quell'esito in Cassazione, nel bel articolo di Gatta: http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/3466-il_diritto_e_la_giustizia_penale_davanti_al_dramma_dell___amianto__riflettendo_sull_epilogo_del_caso_eternit/).

Ebbene, io non contesto che si potesse scegliere una diversa interpretazione sulla struttura del reato, così come si potrebbe allora discutere del complesso tema delle scelte fatte dalla Procura di Torino (peraltro da sempre punta di eccellenza in questo settore). Questo attiene al merito delle questioni giuridiche.
Il vero problema non è che si potesse argomentare diversamente.
Il punto è che in alcune di queste riflessioni sembra dirsi che l’argomentazione potrebbe essere scelta sulla base dell’esito ("giusto"...) che si vuole ottenere.

Io credo che il rischio sia quello di partire dalla decisione che riteniamo giusta (per nobilissimi e fondati motivi ma di tipo pregiudiziale), e DOPO scegliamo l’argomento che ci aiuta ad arrivare dove volevamo arrivare.

Così facendo finiamo per valicare confini pericolosi sotto molti punti di vista.

La magistratura non deve chiudersi in un atteggiamento burocratico e tecnico: può ancora svolgere un fondamentale lavoro di attuazione della Costituzione, applicando le leggi in modo conforme ai principi costituzionali e invocando l'intervento della Consulta quando le norme siano in insanabile contrasto con la Carta fondamentale.
Ma questa vigilanza costituzionale e questa tensione a dare una risposta di giustizia non solo formale non può giustificare travalicamenti della funzione giurisdizionale.

Se sapremo fare questo avremo ancora titolo e credibilità per reclamare la nostra indipendenza nell'interesse della legalità e dell'uguaglianza dei cittadini.



Giudice, fai il giudice
Cresce lo scarto tra aspettative e sfiducia 
Il magistrato legislatore non è un rimedio 


di Glauco Giostra
Corriere della Sera

Vi è qualcosa di persino più grave della crisi della giustizia, di cui si 
parla giustamente tanto: la crisi di fiducia nella giustizia. Per una società democratica è di vitale importanza che il popolo creda nella giustizia amministrata in suo nome; 
ancora più importante, arriverei a dire, del metodo usato e dei risultati ottenuti. Mette a rischio la propria tenuta sociale una collettività che non sia in grado di consegnare con fiducia a un soggetto imparziale il potere di emettere, al termine di un itinerario che essa stessa ha delineato con le sue leggi, una decisione che è poi disposta a rispettare come verità (res iudicata pro veritate habetur). 

Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente ad accettare quella del più forte. La crescente disaffezione per la giustizia, quindi, non può essere sconsideratamente percepita come un incendio al di là del fiume: è, invece, un insidioso agente corrosivo delle già non solide basi democratiche del Paese. 
Nelle società occidentali, orfane dei fondamentali riferimenti ideologici e religiosi, deprivate della forza aggregante della tradizione, disorientate e anomiche, la giurisdizione è divenuta l`unico fattore di coesione, l`ultima autorità cui rimettere la risoluzione di contrasti e di problemi. 

Insomma, l`Enea della società moderna pretende di camminare stando sulle vecchie spalle dell`Anchise della giustizia. Tanto che si parla di democrazia giudiziaria. Fatalmente, l`imponenza del compito si scontra talvolta con l`inadeguatezza delle risorse, nonché con i limiti insiti nel metodo di conoscenza della giurisdizione: il processo. La risposta giudiziaria risulta spesso tardiva, talvolta insoddisfacente, anche per il perdente paragone con il processo allestito dai media dinanzi al tribunale dell`opinione pubblica, apparentemente più trasparente, meno formalistico e più celere. 

Nel nostro Paese, la forbice tra aspettative e sfiducia risulta pericolosamente divaricata. Da un lato, infatti, una politica in pluridecennale crisi di autorevolezza demanda alla magistratura le decisioni che essa non vuole o non riesce a prendere. 
Dall`altro, un`improvvida inflazione legislativa, sistemi processuali farraginosi, endemiche carenze di personale (togato e non), di mezzi e di strutture sono concause di una giustizia lentissima e inadeguata, che ci espone a umilianti condanne da parte della Corte europea dei diritti dell`uomo per l`irragionevole durata dei processi e 
per il trattamento inumano riservato ai reclusi. 

Difficile riporre fiducia in una giustizia che esibisce queste credenziali, tanto più se a ciò si aggiunge la sciagurata, irresponsabile opera di delegittimazione condotta negli ultimi vent`anni da una certa politica paranoicamente ossessionata da complotti giudiziari, o che almeno ha finto di esserlo. 
Ma la sfiducia non dipende soltanto dall` inefficienza del sistema e dall`insistita, interessata opera di discredito, pervicacemente esercitata con ampio dispiegamento di mezzi mediatici. 
Corresponsabile una politica legislativa forte con i deboli e debole con i forti, si è ormai diffusa, nella collettività, la percezione di una giustizia diseguale e lontana. Troppo spesso, agli ultimi della società (gli invisibili, gli immigrati, i disoccupati, 
gli emarginati) la legge mostra solo il volto della pretesa («contro i poveri c`è sempre la giustizia» direbbe Manzoni); mentre agli esponenti del potere politico, economico, ecclesiastico, mostra quello del protettivo privilegio (come la composizione demografica dell`inferno carcerario dimostra). In mezzo ci sono tutti gli altri, 
che riescono a far valere il proprio diritto soltanto se «sopravvivono» a quella selezione naturale che - in una sorta di darvinismo giudiziario consente a pochi, provvisti di particolari risorse, economiche e psicologiche, di superare il lunghissimo percorso a ostacoli di un processo. In genere, il cittadino medio si avvicina alla giustizia con intimidita rassegnazione, come il protagonista de La verità di Pirandello, certo Tararà: «Accettava l`azione della giustizia come una fatalità 
inovviabile. Nella vita c`era la giustizia, come per la campagna le cattive annate. E la giustizia, con tutto quell`apparato solenne di scanni maestosi, di tocchi, di toghe e di pennacchi, era per Tararà come quel nuovo grande molino a vapore, che s`era inaugurato con gran festa l`anno avanti. Visitandone con tanti altri curiosi il macchinario», Tararà s`era sentito «sorgere dentro e a mano a mano ingrandire, con lo stupore la diffidenza. Ciascuno avrebbe portato il suo grano a quel molino; ma chi avrebbe poi assicurato agli avventori che la farina sarebbe stata quella stessa del grano versato? Bisognava che ciascuno chiudesse gli occhi e accettasse con rassegnazione la farina  che gli davano. Così ora, con la stessa diffidenza, ma pur con la stessa rassegnazione, Tararà recava il suo caso nell`ingranaggio della giustizia». 
Questa è, a un dipresso, purtroppo, la giustizia «percepita». Non sfugge il pericolo che si annida in una tale situazione. Sinora si è sempre giustamente detto che dobbiamo garantire l`indipendenza della magistratura da ogni altro potere per assicurare l`uguaglianza dei cittadini; oggi c`è il rischio che i cittadini, avvertendo l`ingiustizia del sistema nonostante l`indipendenza della magistratura, non abbiano più interesse a difenderla e affidino ad altri poteri, ai loro occhi più affidabili (poteri politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), la tutela dei loro interessi. China quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre così pronto a calzare il piede dell`uomo della provvidenza di turno.

 Di certo, una tale deriva democratica sarebbe solo in minima parte addebitabile a responsabilità dei magistrati, ma altrettanto sicuramente sarebbe la loro indipendenza a farne le spese (pubblico ministero «sotto» l`esecutivo, discrezionalità dell`azione penale, Csm a prevalente composizione politica). 
Il vistoso iato tra le demiurgiche attese riposte nella giustizia e la diffusa sfiducia sociale nella stessa non ha mancato di proiettare i suoi effetti anche sul modo in cui alcuni magistrati - ancora una minoranza, per fortuna - vivono oggi il proprio ruolo. 

Alcuni, percependo che, nonostante tutto, la giustizia è l`ultima istanza in una società in decomposizione civile e morale, si abbandonano a protagonismi improntati a una visione tolemaica della giurisdizione, vista come unico centro di irradiazione 
etica della società, come l`unico strumento di redenzione. Sentendosi investiti di una 
missione salvifica, si esibiscono in rodomontate giudiziarie, spesso controproducenti per la stessa causa che in buona fede ritengono di servire. 

Alla base di questi atteggiamenti vi è un pericoloso fraintendimento: si confonde la fiducia che la collettività deve avere nella giustizia con il consenso guadagnato alla singola iniziativa giudiziaria; consenso irrilevante e caduco, quando non pernicioso. 
In altri si registra, sul fronte opposto, una crescente disaffezione, un disagio, quasi una tentazione di esodo dalla funzione giurisdizionale (richieste di incarichi extragiudiziari, di collocamento fuori ruolo, di trasferimento verso uffici di minor impegno, di prepensionamenti, fughe verso la politica). L`«autopercezione» sociale del magistrato è svilita e mortificata. Egli sente, frustrante, un deficit di consenso collettivo rispetto alla funzione che è chiamato a svolgere, e ciò troppo spesso lo induce a derubricarla a rassegnata gestione impiegatizia dei suoi compiti, moderno Sisifo impegnato a smaltire incombenze sempre crescenti, attento a schivare rischi e responsabilità, concentrato sulla tutela del proprio  status e delle proprie aspettative. Rassicura il fatto che la maggioranza dei magistrati ancora resista ad entrambe queste opposte «tentazioni»; preoccupa, che siano sempre di meno.

Lo scarto tra ciò che impropriamente si pretende dalla giustizia e ciò che questa può garantire si riflette, poi, persino sul modo di interpretare e di applicare la legge. Capita sempre più spesso, infatti, che la magistratura, anche nel suo vertice 
di legittimità - messa di fronte a situazioni in cui il rispetto della legalità produrrebbe vistose ingiustizie sostanziali; tenuta a dar seguito a pronunce della Corte europea senza che l`ordinamento gliene offra gli strumenti normativi; costretta ad applicare disposizioni di palese incostituzionalità; impotente testimone dì evidenti abusi delle garanzie - risolva i problemi dando vita a una «giurisprudenza legislativa», spesso 
apprezzabile nel risultato, mai nel metodo. Gabellandole per interpretazioni di carattere sistematico, ovvero costituzionalmente o convenzionalmente orientate, si effettuano operazioni che con il genus interpretazione nulla hanno a che fare; mentre molto assomigliano a una impropria attività di supplenza rispetto alla inerzia o alle 
inadeguatezze del potere legislativo. 


Quando la formulazione lessicale viene considerata plastilina linguistica tra le dita dell`interprete, che può modellarla alla bisogna, questi non applica la norma, la forgia. La necessità di superare delicati problemi contingenti può spiegare la forzatura, mai giustificarla, perché simili operazioni comportano un preoccupante travalicamento delle prerogative istituzionali del potere giudiziario. Producono, infatti, una pericolosa commistione di metodo e obiettivi tra la decisione politica e la decisione giudiziaria. L`agire politico guarda al futuro, si orienta verso determinati 
obiettivi, cerca i mezzi più idonei per conseguirli e risponde dei risultati ottenuti. L`attività giurisdizionale, invece, guarda al passato e opera secondo lo schema «se si è verificato un tale fatto... allora ...», ma il procedimento per accertalo e le conseguenze da farne derivare sono determinati dalla legge. Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito, di farsi carico degli effetti della propria decisione: se evade dallo schema legale - che è a un tempo la sua gabbia e il suo scudo - e si spinge a fare scelte politiche, prima o poi sarà chiamato politicamente a 
risponderne. Resta, inevasa, una domanda: c`è ancora un sentiero, per quanto stretto, che la magistratura può - e se può, deve - percorrere per assolvere al suo alto mandato pur nella difficilissima situazione data? Per non deludere, senza esondare dalle sue prerogative istituzionali? Per rappresentare ciò di cui questa società ha più bisogno: 
un riferimento fermo di giustizia e di etica civile?

Azzardo una risposta. Spero non suoni semplicistica, ma viviamo un tempo in cui riaffermare l`ovvio è spesso rivoluzionario. Il miglior servizio che la magistratura può oggi rendere alla collettività è compiere il suo dovere nonostante, amministrando 
con compostezza, refrattaria a suggestioni e pressioni, la giustizia possibile nelle condizioni date. Non abbiamo bisogno di Savonarola in toga, né di burocratici travet della giustizia, ma di magistrati che assolvano al loro ufficio - si conceda l`ossimoro - con umile orgoglio: l`orgoglio di esercitare la più alta funzione sociale, quella di 
giudicare; l`umiltà di sentirsi comunque - in quanto uomini - inadeguati al compito. Abbiamo bisogno di magistrati che svolgano il loro delicato compito nec spe, nec metu (né con speranza né con timore); che sappiano esprimere accoglienza, trasparenza e rispetto ai Tararà che a qualsiasi titolo varcano il portone del Palazzo di giustizia; che operino con equilibrio, competenza, impegno, riserbo, rigorosamente all`interno del recinto della legalità; che difendano strenuamente 
la loro indipendenza da interferenze esterne e interne al potere giudiziario. 
Fortunatamente sono tantissimi i magistrati così; ma non abbastanza da far «percepire» la giustizia come il rassicurante, vitale, silenzioso respiro della democrazia. 

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