L'articolo 54 della Costituzione, dopo aver affermato che tutti abbiamo il dovere di essere fedeli alla Repubblica e osservarne le leggi, si rivolge alle persone cui sono affidate funzioni pubbliche...e a loro chiede qualcosa di più.
Quelle funzioni svolte nell'interesse della collettività devono essere adempiute con disciplina ed onore.
Non basta osservare le leggi e non incappare in sanzioni e tanto meno può essere sufficiente non venire condannati per dei delitti: questo è il minimo ed è richiesto a tutti, ovviamente!
Se invece si hanno responsabilità pubbliche è chiesta una particolare credibilità e autorevolezza, perché la persona incaricata di queste funzioni diviene di fatto il volto dello Stato e nel suo lavoro rappresenta l'istituzione per cui lavora.
L'onorevole che cade in condotte indegne sta danneggiando anche il Parlamento intero.
Il magistrato che si dimostra poco professionale o poco laborioso o addirittura poco indipendente e credibile danneggia l'immagine dell'intera magistratura.
Il punto è che la credibilità delle istituzioni democratiche non è un interesse di chi le incarna, ma un bene prezioso per la tenuta democratica, un presupposto necessario perché si possa lavorare per realizzare e difendere ogni giorno il disegno costituzionale di un Paese più libero e giusto.
Negli ultimi giorni i giornali raccontano vicende molto gravi; al netto della prudenza che ci vuole quando non si conoscono le carte ufficiali, e nel rispetto del principio di non colpevolezza, non possiamo sottrarci da una riflessione su quello che sta emergendo.
Il punto non è il procedimento penale in corso e l'affermazione giudiziaria di eventuali responsabilità.
Rispetto a questo dovremo attendere il corso della giustizia.
Quella che invece non può attendere è la presa di consapevolezza del fatto che la vera emergenza è la fotografia impietosa di un sistema di gestione dell'autogoverno della magistratura.
Quello che non può attendere è un duro esame di coscienza da parte dell'intera magistratura, perché l'emergenza è etica.
Noi magistrati siamo sicuramente tra coloro a cui l'articolo 54 chiede di svolgere le nostre funzioni con disciplina ed onore.
Mi verrebbe da dire che la disciplina attiene alla professionalità e all'indipendenza con cui si lavora, mentre l'onore è la capacità di farlo risultando sempre credibili e autorevoli anche verso i cittadini.
Come credere alla giustizia se chi la amministra non è credibile?
Come giustificare la pretesa punitiva dello Stato se chi deve indagare e poi se del caso condannare non dimostra di attenersi lui per primo ai più alti standard di trasparenza e onestà?
In politica spesso ce la prendiamo poi con quelli che si comprano i voti per le proprie ambizioni personali, dimenticandoci di riflettere sul vuoto etico e culturale di chi quel voto è disposto a venderlo.
Allo stesso modo, nel micro cosmo dell'autogoverno della magistratura, sarebbe ipocrita e insufficiente prendersela con chi ha responsabilità di vertice, se poi non segue anche e soprattutto una riflessione critica sulla base, che evidentemente chiede e sfrutta certe logiche di condizionamento delle scelte.
O la smettiamo di cercare l'amico, l'appoggio, la spintarella... O la finiamo di riempirci di paroloni e poi di prendere il telefono quando invece ci sono di mezzo i nostri personali interessi... Oppure questi fenomeni di degenerazione continueranno ad esserci e a inquinare la magistratura e di conseguenza l'intero equilibrio democratico del Paese.
Da questo punto di vista ho l'impressione che la categoria cui appartengo stia attraversando una crisi etica e culturale molto simile a quella che vive l'intera collettività.
Il confine tra giusto e sbagliato sembra sbiadire sempre di più e tempo che molte delle persone coinvolte nei vari scandali di questi anni, incluso quest'ultimo, avessero scarsa consapevolezza del disvalore etico del loro comportamento.
Questa riflessione l'ho maturata negli ultimi anni, occupandomi di molte indagini su delitti commessi da professionisti e colletti bianchi, persone dal casellario giudiziale illibato che di fronte all'opportunità di avvantaggiarsi illecitamente non si facevano scrupoli, con la tranquillità (e a volte l'arroganza) di chi pensa di essere nel giusto, perché misura la giustizia su se stesso e sui propri bisogni.
Ecco perché torno ancora col pensiero alla lezione di Gherardo Colombo: l'obbedienza non basta più, perché è tra le pieghe delle regole che si insinua l'interesse personale e viene deturpato quello pubblico...perché la vera misura non è il rispetto formale della regolina di turno, ma l'adempimento con dignità e onore delle funzioni pubbliche e in generale dei principi costituzionali...
Solo se ripartiamo dai valori fondanti sapremo spezzare certe relazioni pericolose.
Solo guardando agli alti valori della Costituzione potremo uscire dalla palude in cui ci troviamo.