"the problems we all live with" di norman rockwell

sabato 21 settembre 2024

Veleno... e semi per un esame di coscienza

Dopo molto tempo dalla sua uscita mi sono deciso ad ascoltare "Veleno", il podcast di Pablo Trincia che offre una ricostruzione giornalistica della vicenda dei c.d. "diavoli della bassa modenese".


Occupandomi tutti i giorni da oltre dieci anni di maltrattamenti e abusi sento il bisogno di non affondare continuamente i miei pensieri in queste vicende dolorose e inoltre sono diffidente dalle narrazioni mediatiche: troppo spesso ho letto cose imprecise o ingannevoli nei resoconti giudiziari di procedimenti di cui conoscevo le carte.


Scherzando, cito sempre l'acida battuta di Stefano Benni: "era scritto sul giornale, ma era vero.."


Questa prevenzione personale unita al pregiudizio è naturalmente una forma di protezione che rischia di non farmi mettere in discussione e quindi ho voluto uscire da questo spazio di comfort per ascoltare la narrazione di una vicenda che tra l'altro aveva coinvolto un territorio e degli uffici giudiziari che ho conosciuto personalmente, seppure molti anni dopo i fatti e i processi di cui il podcast si occupa (sono stato pubblico ministero a Modena dal 2012 al 2019).


Devo dire che si tratta di un prodotto ben confezionato e che - al di là di qualche concessione a uno stile enfatico e suggestivo che per ragioni professionali non amo - mi pare frutto di un metodo corretto, fatto di studio delle carte, ricerca di documenti e consultazione di testimoni ed esperti che possano rappresentare i diversi punti di vista.


Non intendo dire la mia su quelle vicende: il fatto che il podcast sia interessante e ben strutturato non può dare a nessuno la presunzione di aver capito la verità o di poter giudicare il lavoro di altri.


Vorrei però fare alcune riflessioni come magistrato e soprattutto come pubblico ministero che si occupa da anni anche di ascoltare il racconto di minori maltrattati o abusati.


1) Vicende così complesse dovrebbero essere oggetto e occasione di riflessione e studio retrospettivo anche all'interno della nostra categoria, non certo per fare un processo al processo o ai loro protagonisti, ma perché diventino esperienza condivisa rispetto a dinamiche così delicate nella raccolta dei ricordi e delle prove. La mia categoria tende invece ad arroccarsi, preoccupata di non diventare capro espiatorio di (presunti) errori. Questa chiusura ci impedisce di maturare e di aprirci al dialogo con gli altri professionisti (avvocati, psicologi, psichiatri, medici legali) e non ci aiuta a stare al passo con l'evoluzione delle scienze forensi. L'autoreferenzialità ci impedisce di imparare dai nostri sbagli e ci condanna a reiterarli.


2) Oggi c'è moltissima attenzione su questi temi e assistiamo anche ad un grande sforzo di formazione e preparazione dei magistrati e di tutti gli altri operatori. La scienza giuridica e la psicologia forense hanno fatto passi da gigante e questo è certamente un bene, ma non vuol dire affatto che basti e che non vi sia comunque e sempre un bisogno di migliorare e di crescere, anzi.. Ancora troppo spesso si possono osservare vicende processuali non gestite con le migliori buone prassi investigative e psicologiche, ovvero chi ne è incaricato non di rado non ha abbastanza esperienza sul campo.

Io per primo mi rendo conto che solo da alcuni anni ho maturato non dico un'assoluta padronanza dei metodi di ascolto e di indagine, ma perlomeno una certa consapevolezza delle criticità e delle attenzioni che devo avere per cercare la verità, nel massimo rispetto dei diritti e scongiurando quanto più possibile ogni danno collaterale verso vittime, testimoni e indagati (presunti non colpevoli sino alla fine).

Mi occupai insieme a tante altre bravissime colleghe delle indagini sulla scomparsa della piccola Denise a Mazara del Vallo (eravamo allora la più giovane procura d'Italia). Ciò che rimpiango di più è che non ci fosse un contesto di esperienze e di affiancamento di professionisti strutturati che ci potesse coadiuvare nella gestione di una vicenda tanto difficile e stratificata, per di più in un territorio a noi poco conosciuto e che presentava elementi di opacità del tutto peculiari.

Invece che fare i quarti gradi ad uso e consumo di qualche applauso mediatico o per puntare il dito contro questo o quello, credo che sarebbe assai più interessante e soprattutto utile riflettere (come categoria ma anche pubblicamente e politicamente) su cosa si può imparare da certe vicende e su come garantire che questo tipo di inchieste possa essere gestito con la massima professionalità in futuro (considerato che non sappiamo mai quando e dove accadrà il prossimo mistero). Avrei molto da dire e suggerire su questo, ma ci porterebbe lontano..


3) Ancora oggi abbiamo la grande difficoltà di mediare tra la giusta preoccupazione per dei fenomeni criminali reali e pericolosi e la necessità di svolgere accertamenti nel massimo rispetto di tutte le persone coinvolte, con prudenza e vorrei dire gentilezza. Una cosa che ho compreso è che anche quando non è ancora chiaro cosa sia accaduto, se arriva sul mio tavolo una segnalazione per possibili abusi e maltrattamenti quel che è certo è che lì ci sia delle sofferenza e del disagio e quindi bisogna muoversi con attenzione, tempestività ma anche grande delicatezza. Si tratta di un equilibrio pressoché impossibile ma cui è importante tendere e che dobbiamo sforzarci di trasmettere a tutti i soggetti coinvolti, penso anzitutto ai difensori (degli indagati ma anche delle vittime), alla polizia giudiziaria che ci accompagna nelle indagini sino ad arrivare agli operatori sociali e ai consulenti di ogni parte che vengono coinvolti.

L'ansia è nemica della lucidità e il pregiudizio rischia di farci svolgere accertamenti superficiali e di non coltivare due doti essenziali per avvicinarsi alla realtà dei fatti: prestare attenzione e coltivare il dubbio per verificare ogni passaggio.


4) Va tenuto distinto l'ambito dell'accertamento in sede penale - che richiede le più alte garanzie di difesa e il più difficile standard di prova, ovvero la dimostrazione di un fatto al di là di ogni ragionevole dubbio - da quelli che sono invece i procedimenti civili e le vicende amministrative legate all'affidamento dei minori. Ovvio che a fronte di possibili reati vi sono ricadute e interferenze, ma non devono esserci automatismi e vanno tenuti sempre chiari a tutti i diversi compiti e i rispettivi limiti di ogni ambito. In ogni caso non va perso di vista un principio di fondo: non ci occupiamo di giudicare le persone e di decidere sulle loro vite. si valutano e giudicano "solo" le condotte delle persone, cosa ben diversa...


5) Confrontarci con complesse vicende del passato è un'operazione utile se fatta con l'obiettivo di comprendere, imparare e anche di spiegare a chi non conosce le procedure cosa sia accaduto e come sia stato possibile. Certo, le sentenze irrevocabili sono dei pilastri importanti, ma non possono neanche l'unico elemento di conoscenza o dei totem intoccabili, soprattutto quando i filoni processuali collegati sono molteplici e non tutti si sono conclusi in modo coerente..


Noi magistrati abbiamo il dovere di parlare in relazione a vicende specifiche solo attraverso i nostri atti. Sarebbe assai inopportuno che un magistrato commentasse il lavoro e le decisioni di altri, peraltro ovviamente non potendone conoscere tutte le carte..

Quello che però possiamo e dobbiamo fare è una riflessione più generale sul percorso processuale, sui metodi investigativi, sulle ricadute sociali e mediatiche. perché una sentenza passato in giudicato è un approdo pressoché irremovibile, ma in gioco c'è anche la credibilità dei magistrati e delle giustizia, un valore fondamentale per la tenuta della coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni democratiche.


Trasparenza, dialogo e confronto sono momenti importanti per seminare e coltivare questa fiducia, di cui la giustizia ha un bisogno tremendo per dare risposte corrette, concrete ed effettive a tutte le persone.

venerdì 2 agosto 2024

ALLA RICERCA DI UNA MEMORIA COLLETTIVA

Il 2 agosto di 44 anni fa nella Stazione di Bologna 85 persone venivano uccise e oltre 200 ferite nel più grave attentato terroristico del dopoguerra italiano.

In questo Paese siamo affezionati alla retorica dei misteri irrisolti, anche quando alcune risposte giudiziarie e storiche sono arrivate, ma forse questo costringerebbe da un lato a fare i conti con i fatti accertati e dall’altro a non potersi più accontentare di retorica e slogan, merce assai più facile da vendere al mercato delle opinioni sui media.

A un certo punto del suo intervento Francesco Crispi aveva detto: penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come sono avvenute. Si preparava così a governare l’Italia” (L. Sciascia)

Proviamo a mettere ordine in modo sintetico ai capitoli giudiziari di questa vicenda.

Il primo processo (terminato nel 1995) è quello che portava alle condanne all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, dei neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, appartenenti ai NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari furono un’organizzazione terroristica italiana neofascista di estrema destra). Contestualmente venivano condannati per depistaggio l’ex leader della loggia massonica P2 Licio Gelli, due ufficiali del SISMI (Servizio Informazione Sicurezza Militare, il servizio segreto dello Stato italiano) ed il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI stesso).

Nel secondo processo, terminato nel 2007, è stato condannato quale esecutore materiale Luigi Ciavardini, altro esponente dei NAR, mentre il terzo capitolo giudiziario è quello che ha visto la condanna di Gilberto Cavallini nel 2020, anch’egli legato ai NAR. Durante questo terzo processo erano emersi possibili elementi di contatto fra i NAR ed i servizi segreti italiani, come dei numeri di telefono annotati da Cavallini riconducibili a una struttura del SISDE, e la presenza di due covi dei NAR in via Gradoli a Roma, dove durante il rapimento Moro erano basate le Brigate Rosse di Moretti, in entrambi i casi in stabili di proprietà di agenzie immobiliari collegate al SISDE.

Nelle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna veniva riconosciuto che i servizi segreti deviati e la P2 avevano avuto un coinvolgimento diretto nella pianificazione della strage: si era trattato di “un’operazione complessa con una micidiale sinergia volta a destabilizzare l’ordinamento democratico”.

Il quarto ed ultimo processo ha appena visto (lo scorso 8 luglio 2024) la conferma della condanna di Giovanni Bellini all’ergastolo da parte della Corte d’Assise d’Appello. L’indagine è stata condotta dalla Procura Generale di Bologna che aveva avocato questo ennesimo filone, ritenendo che Bellini (ex di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata nel 1960 e disciolta formalmente nel 1976) fosse stato tra gli esecutori della strage e avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, oltre agli ex NAR già condannati: tesi accolta in primo e secondo grado.

Bellini è una figura paradigmatica degli intrecci delle trame più oscure che hanno attraversato la storia criminale del potere in Italia: militante neofascista di Avanguardia Nazionale, ladro, assassino del giovane Alceste Campanile di Lotta Continua, latitante, infiltrato in Cosa Nostra, killer della ‘ndrangheta… indagato dalle Procure di Firenze e Caltanissetta per le stragi del 1993,

Come ha scritto Gianni Barbacetto su Il Foglio Quotidiano, questa sentenza “consolida la lettura della strage come progetto dell’intera galassia della destra neofascista”.

Il ruolo di Licio Gelli, seppure oggetto di un accertamento per così dire incidentale, non è solo quello di un depistatore, bensì di colui che diede l’impulso iniziale e fondamentale. Non è un dettaglio secondario, considerato l’elenco imbarazzante di politici, imprenditori,  militari, membri dei servizi segreti e diplomatici iscritti alla loggia P2 (elenco scoperto da Gherardo Colombo il 17 marzo 1981 nell’ambito delle indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona, ovvero il banchiere e faccendiere riconosciuto come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, a proposito di intrecci torbidi…).

La recente sentenza bolognese evoca un “diritto soggettivo alla verità” che interpella tutti i cittadini nel chiederne il rispetto, ma soprattutto delinea un dovere di ricerca per le istituzioni e tra queste in primis per la magistratura.

Forse vorremmo vedere ancora “tutto più chiaro che qui” (come cantava De Gregori), ma gli approdi processuali di questa grave e cruciale pagina della storia italiana non sono briciole di cui accontentarsi, ma mattoni importanti di un percorso che peraltro non può essere delegato solo alle sentenze, ma che dovrebbe essere un patrimonio di ricostruzione della memoria collettiva condivisa.

ll ricordare è più di un semplice riepilogo e catalogo di fatti. I ricordi che i gruppi sociali si tramandano influenzano la nostra identità sia come singoli, sia come comunità e, nel loro complesso, vengono chiamati "memoria collettiva"” (https://www.geopop.it/cose-la-memoria-collettiva-e-perche-abbiamo-bisogno-di-ricordare-insieme/) 

Le sentenze della magistratura italiana, e tra queste quelle che hanno riconosciuto la responsabilità di Bellini, assumono un ruolo importante per la faticosa e necessaria ricostruzione di questa memoria collettiva.

Non ci sono quindi solo i misteri e la retorica di una verità inaccessibile, bensì un cammino faticoso ma ostinato per dare nomi alle responsabilità e per aiutarci a comprendere sempre di più le trame oscure della nostra storia (sul tema suggerisco la puntata finale de “Il buco nero”, di Flavio Tranquillo, https://video.sky.it/news/cronaca/video/il-buco-nero-puntata-8-conclusione-886673).

E come non dubitare che processi come quelli istruiti dalle Procure di Bologna e celebrati dalle Corti d’Assise non si sarebbero realizzati senza uffici del Pubblico Ministero davvero indipendenti e al tempo stesso ancorati alla cultura della giurisdizione che caratterizza la magistratura disegnata dalla Corte Costituzionale.

Forse anche questa è una delle tante riflessioni che dovremmo fare, con gratitudine verso quella parte della magistratura che ha assolto il suo compito ma anche sentendoci tutti interpellati da questo diritto-dovere alla verità.