La recente vicenda dell'assoluzione di un uomo dall'accusa di omicidio della moglie ha
scatenato reazioni sia dal mondo politico che nell'opinione pubblica.
Come spesso accade siamo di fronte ad un corto
circuito della (presunta) informazione, che, sapendo di poter colpire nel
segno, ha presentato la decisione con un pericoloso mix di
imprecisioni, contribuendo a suscitare la reazione del pubblico (e uso
questo termine non a caso al posto della parola cittadini) e la
successiva muscolare iniziativa del Ministro della Giustizia, che ha
inviato degli ispettori per verificare l'accaduto.
Ma di cosa stiamo parlando?
Ecco, quasi nessuno lo sa. Di carte
processuali non se ne trovano e peraltro dubito che sarebbero in molti a
leggerle.
Siamo interessati a esprimere i nostri giudizi e
non certo a capire e a
perdere tempo con oziose questioni sui fatti e sulle regole e sui termini
(sofismi da Azzeccagarbugli). Il tempo del giudizio è quello rapido dello
scorrimento di una (pseudo) notizia sullo schermo dello smartphone.
L'unico passaggio noto, enfatizzato ad uso
mediatico, sarebbe quello per cui i consulenti della difesa e del Pubblico
Ministero avrebbero affermato, durante il dibattimento, che l'imputato “era
in preda ad un evidente delirio da gelosia che
ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile
impulso omicida”.
L'equazione ipotizzata dai media è che la gelosia
sarebbe diventato il motivo dell'assoluzione, così dando la stura a vecchie
categorie maschiliste, tese a giustificare la violenza dell'uomo.
A questo punto la notizia passa sullo sfondo. Il
fatto è che un uomo è stato assolto dopo aver ucciso la moglie per gelosia: ora
dobbiamo schierarci. O ancor meglio, indignarci... perché tutti ci
sentiamo più giusti se abbiamo qualcuno o qualcosa da additare come sbagliato,
perché così possiamo sfogare la nostra rabbia.
Proviamo a non cadere in questo tranello e
cerchiamo di capire se il punto di partenza è corretto. Attenzione, qui non mi
preme entrare nel merito della vicenda processuale (cosa che non possiamo fare
per i motivi che dirò), ma affermare dei principi di metodo che sono essenziali
perché il dibattito pubblico non si trasformi in una rissa o in urla da stadio.
Premessa: è stato pronunciato solo il
dispositivo della sentenza, quindi nessuno conosce le motivazioni. Ecco
perché dovremmo trattenerci da strepiti e illazioni e, se davvero interessati
al caso e non a far risuonare i nostri (pre)giudizi, dovremmo semplicemente e
sommessamente aspettare di poterle leggere. La "gelosia" non è
certo citata dal dispositivo ma è un'espressione estrapolata da un contesto
certamente più ampio e complesso, ovvero il dibattimento.
Detto questo, veniamo al primo vizio di
questo modo di dare la notizia: è un'assoluzione perché l'imputato è stato ritenuto incapace di intendere e di
volere. Non quindi un'assoluzione sul merito: è stato riconosciuto che
il delitto è stato effettivamente commesso dall'accusato, ma questi non può
ritenersi imputabile perché non era in grado di comprendere la situazione e
determinare le proprie scelte.
Se ci fermiamo a riflettere un'istante,
comprendiamo bene quanto sia importante che nel nostro ordinamento si pretenda
che la sanzione penale (la più grave prevista dal sistema
perché limitativa della libertà personale) può essere applicata solo se
l'autore del fatto era imputabile e quindi rimproverabile.
D'altronde, cosa ci potrebbe essere di
più ingiusto dal punire qualcuno che non era soggettivamente responsabile di
quello che stava facendo? Altro aspetto è poi quello di come gestire
il soggetto che sia prosciolto ma dichiarato pericoloso: ecco che consegue
una misura di sicurezza, ovvero una misura di durata indefinita e volta a
controllare e contenere e prevenire il soggetto fino a che sarà riconosciuto
pericoloso. L'esigenza punitiva non prevale sul rispetto della persona e sulla
correlazione tra responsabilità e sanzione.
Tutto ciò discende direttamente dai principi
costituzionali di responsabilità penale personale e del fine
rieducativo della pena: come potremmo perseguire la rieducazione di
qualcuno che non era senza sua colpa inconsapevole e non responsabile delle sue
azioni?
A questo punto gran parte delle polemiche
sarebbero già smontate e la riflessione si sposterebbe al massimo sulla
valutazione psichiatrica fatta nel dibattimento. Ma, appunto, nessuno di noi
conosce le carte e gli accertamenti fatti dai consulenti e quindi non possiamo
certo criticarne le conclusioni.
Ma ormai è partita la corsa sfrenata ad esprimere
giudizi e il polverone mediatico spinge il Ministro a reagire e a inviare degli
ispettori presso gli uffici giudiziari coinvolti.
Ecco che il corto circuito è completo: un
rappresentante del Governo, e quindi del potere esecutivo, invia qualcuno a
controllare la decisione dei magistrati, il potere giudiziario.
I magistrati sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 Costituzione), eppure dovranno
rispondere agli ispettori, non si capisce bene di cosa... il tutto mentre ancora
devono essere scritte le motivazioni, ovvero la spiegazione dettagliata
della decisione presa.
La decisione dei magistrati non è un totem
intoccabile, ma la verifica della corretta applicazione delle norme deve
avvenire nell'ambito della giurisdizione, negli eventuali successivi gradi di
giudizio, e secondo le regole proprie del processo.
L'esercizio della giurisdizione è l'espressione
più alta dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere e tale separazione
è un baluardo della democrazia e non un privilegio dei magistrati.
Il gradimento del potere o dell'opinione pubblica
non sono categorie degne di un sistema giudiziario liberale e giusto.
"Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere" (Lord Bingham)