Occupandomi ogni giorno da molti anni di contrasto alla violenza di genere, mi lascia amareggiato constatare il modo in cui questo grave fenomeno viene narrato dai media.
L'enfasi sulle storie finite male e la miscela di qualunquismo e morbosità che spesso caratterizzano questo tipo di cronaca, non solo non aiutano a comprendere cosa è accaduto e come si è giunti a quei drammatici epiloghi, ma finisce anche per alimentare (spesso molto ingiustamente) il circuito vizioso di sfiducia verso le istituzioni che rappresenta una delle ragioni che inducono le donne a non denunciare.
Sappiamo quanto una brutta notizia, che specula su un dramma e cerca un facile capro espiatorio, attiri molta più attenzione di una riflessione equilibrata che prova invece a entrare nelle pieghe del fenomeno per comprendere cosa non abbia funzionato o cosa si debba fare di più.
Sono un pubblico ministero e quindi la mia prospettiva è quella del processo penale. Limitare la discussione agli strumenti del diritto penale è però uno dei grandi problemi del dibattito pubblico rispetto a un fenomeno che ha molte sfaccettature psicologiche, sociali culturali e anche economiche. La risposta a questo terribile problema della nostra società deve quindi essere anzitutto culturale, educativa, politica: dobbiamo prevenire mediante l'educazione e il diffondersi di una diversa culturale delle relazioni, dobbiamo promuovere l'emancipazione anche economica delle donne e le pari opportunità, dobbiamo sostenere le situazioni di disagio rafforzando le reti territoriali, dobbiamo comprendere le ragioni del diffuso abuso di alcol e stupefacenti e contrastarlo perché spessissimo alcolici e droghe sono elementi che fanno deflagrare le violenze. Immaginare di risolvere il problema aumentando le pene e usando solo la leva della sanzione penale è una grave ingenuità, utile solo alla propaganda.
Tornando però intanto a ragionare nell'ambito del processo penale, va riconosciuto che non mancano gli strumenti volti a tutelare vittime e che quindi molto spesso possiamo avere la capacità di fermare ovvero impedire ulteriori fatti di stalking o maltrattamento... ma resta il fatto che il procedimento penale riguarda l'accertamento e la punizione di fatti di reato già commessi e non è uno strumento volto alla prevenzione (perlomeno fino a che non si realizzerà la cupa profezia di "minority report").
Può accadere che, nonostante sia stata presentata una denuncia, non ci siano però i presupposti per attivare una misura cautelare, ovvero una misura di protezione della vittima e di limitazione dell'indagato (tipicamente un divieto di avvicinamento o un allontanamento dalla casa famigliare, sino ad arrivare agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare in carcere nei casi più gravi). Se non abbiamo raccolto gravi indizi di colpevolezza e se non vi sono elementi concreti che fanno ritenere attuale un rischio di reiterazione, non possiamo infatti ottenere misure. Vero è che la sola dichiarazione della vittima può essere sufficiente, ma in molti altri casi è indispensabile consolidare tale versione con riscontri obiettivi o testimoniali. Soprattutto non sempre nella vicenda emergono elementi che consentano di ritenere concreto e attuale il rischio di reiterazione.
Va tenuto presente che in un ufficio come Bologna, tanto per fare l'esempio che conosco, ogni giorno arrivano mediamente 7/8 notizie di reato relative a maltrattamenti, stalking e altri reati di codice rosso. Il nostro dovere è occuparci di ogni fatto con attenzione, verificarne la fondatezza e filtrarne anche la gravità (come in un triage del pronto soccorso): le misure cautelari, rappresentando delle limitazioni della libertà di persone indagate ancora presunte non colpevoli (sulla base di un principio costituzionale essenziale del nostro stato di diritto), non possono applicarsi automaticamente o in modo indiscriminato (sarebbe come pretendere che tutte le persone che si recano al pronto soccorso debbano essere trattate con la medesima urgenza e coi medesimi strumenti; il risultato sarebbe quello di non curare adeguatamente i casi, ingolfando il sistema e producendo inefficienze ed errori).
Questo non vuol dire affatto che all'interno del procedimento penale non vi siano già degli ottimi strumenti per intervenire: infatti ogni settimana eseguiamo numerose misure cautelari e trattiamo positivamente decine di denunce anche senza fare arrivare a limitazioni preventive della libertà personale. Nella mia esperienza quasi ventennale ho trattato migliaia di casi e non mi è mai capitato che accadesse l'irreparabile durante l'indagini e questo vale per la stragrande maggioranza dei magistrati impegnati su questo fronte insieme alle forze dell'ordine.
C'è un enorme foresta che cresce, fatta di procedimenti positivi, nei quali la vittima trova una risposta e le violenze vengono interrotte e poi sanzionate. Queste storie non vengono quasi mai raccontate, anche per ragioni di segretezza investigativa oltre che di privacy... Limitare la narrazione collettiva e pubblica alle vicende finite male offre una visione deformata e mistificante del lavoro di contrasto che viene fatto e che è nella gran parte dei casi positivo e tempestivo.
Ogni femminicidio è inaccettabile e resta una ferita per la società e per il mondo della giustizia e delle forze dell'ordine. Ogni donna maltrattata deve interpellare la nostra coscienza su cosa possiamo fare di più e meglio per proteggere in particolare il mondo femminile. Però non cadiamo nell'errore del puntare sempre in automatico il dito contro qualcuno, perché così facendo spesso commetteremmo un errore e faremmo qualcosa di inutile per un verso e dannoso per un altro.
Potremmo commettere un errore perché, come detto, non sempre abbiamo gli strumenti per impedire nel contesto delle indagini eventi anomali e che non sono stati anticipati da segnali di allarme che ci hanno consentito di intervenire.
Faremmo qualcosa di inutile e dannoso perché diffondendo sfiducia e alimentando l'idea falsa e qualunquista che tanto le cose non funzionano, che non serva denunciare, che giustizia e forze dell'ordine non intervengono e non proteggono... stiamo facendo sentire più vulnerabili e isolate le vittime, che quindi non troveranno il coraggio di denunciare e chiedere aiuto.
Ci possono essere dei casi di errore umano e di scarsa professionalità e quelli vanno naturalmente individuati, stigmatizzati e vi devono essere le conseguenze previste dall'ordinamento per chi ne ha responsabilità. Questo però non può travolgere il lavoro che ogni giorno centinaia di magistrati e migliaia di poliziotti, carabinieri, avvocati e altri operatori sociali mettono in campo per aiutare, sostenere, proteggere, intervenire.
Come nel bullismo, spesso la sensazione di debolezza e di inevitabilità che travolge la vittima è un fattore determinante perché si protragga e si aggravi il contesto di violenza e prevaricazione.
Dare fiducia che invece esiste una via d'uscita, che vi sono strumenti di protezione efficace, che lo Stato c'è e non si è soli: tutto ciò è determinante per far emergere le storie sommerse di violenza, intervenire, proteggere la persona offesa e sanzionare il colpevole.
Cerchiamo di informarci e di informare allora in modo intelligente e completo, analizzando e non semplicemente puntando il faro su ciò che può far aumentare il numero di clic. In questo modo crescerebbe la consapevolezza e la comprensione del problema e da un dibattito più lucido e completo potranno scaturire strategie migliori (non solo nell'ambito del processo penale...!) per non lasciare sola nessuna donna vittima di violenza.
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