"the problems we all live with" di norman rockwell

domenica 8 ottobre 2023

Ci sono dei limiti alla manifestazione del pensiero da parte dei magistrati?


Ci sono dei limiti alle manifestazioni del pensiero da parte dei magistrati? E quali sarebbero?
Queste domande si sono sempre poste, dovendo garantire l’indipendenza e la separazione della magistratura dalla politica, ma al contempo tutelare i diritti costituzionali dei singoli magistrati, che vincendo il concorso non perdono certamente in automatico le loro prerogative di cittadini.

La vicenda di questi giorni ha dei contorni molto precisi se solo si cerca di ricostruirla con lucidità e non si corre dietro alla narrazione mediatica.
La collega non ha convalidato dei fermi disposti sulla base della nuova normativa in materia di immigrazione, motivando in punto di violazione degli obblighi internazionali e quindi anche dell’art. 10 della Costituzione. Se a qualcuno interessasse il merito della decisioni e i principi in gioco (ma è un grosso se, temo…), si può documentare: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritti-umani/2912-difetto-di-motivazione-questa-la-ragione-della-non-convalida-dei-provvedimenti-di-trattenimento-del-questore-di-ragusa

A quel punto la giudice è stata oggetto di attacchi anche sui social, venendo accusata di aver usato la sua funzione giurisdizionale di fatto come strumento di reazione politica. Ipotesi assai grave e che però, come dimostra l’articolo sopra citato, è priva di fondamento, essendo la decisione fondata su questioni giuridiche (e non su opinioni personali)
Il fatto che sia una decisione sgradita al Governo non la rende una decisione di natura politica: politiche possono essere eventualmente (e forse inevitabilmente) le ricadute della decisione stessa, ma questo non può e non deve influenzare il magistrato che applica la legge, ancor più se in ballo ci sono principi fondamentali e costituzionali come la tutela della libertà personale e il rispetto degli obblighi internazionali.
Attenzione: non è in discussione la possibilità di discutere del merito della decisione del giudice, contro cui peraltro si potranno anche azionare i ricorsi previsti dalla legge. Quel che non è invece accettabile e normale di un sistema democratico è vedere l’attacco all’esercizio della giurisdizione in quanto tale e nella misura in cui questo si manifesta in modo non gradito al potere politico. Questa non è più legittima critica ma diventa espressione di insofferenza verso l’indipendenza della magistratura, che dei sistemi democratici è appendice necessaria e ineludibile.

Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere” (Lord Bingham, presidente del British Institute of International and Comparative Law”

La mancanza di argomenti sostanziali contro il provvedimento del Tribunale di Catania mi pare dimostrata da quanto è accaduto in seguito.
L’attacco è diventato ad personam, si è cercato di delegittimare il magistrato, tra l’altro approfittando di uno spaventoso squilibrio di accesso ai media, ovviamente… sino a ripescare un video nel quale la collega di Catania aveva partecipato a una manifestazione in favore dei diritti dei migranti. 

Un ottimo articolo di Armando Spataro su La Stampa ha già illustrato come tale partecipazione è stata strumentalizzata e manipolata, per una serie di ragioni: l’evento vedeva coinvolte anche associazioni cattoliche e moderate avendo carattere più strettamente umanitario che politico ed inoltre la giudice non ha minimamente condiviso i comportamenti di qualche frangia più provocatoria ed aggressiva.
Se questo è il quadro, ed è perciò evidente la chiave propagandistica della polemica innescata ai danni della collega, tuttavia non possiamo non cogliere l’occasione per riflettere se il diritto dei magistrati a manifestare le proprie opinioni non debba incontrare degli argini di opportunità per non intaccare l’immagine di indipendenza e terzietà dell’intero ordine giudiziario.

Se certamente tale diritto diritto costituzionale deve essere difeso difeso da attacchi strumentali come quelli che stiamo osservando in questi giorni, ciò non toglie che vi sia l’assoluta esigenza che il magistrato eserciti il proprio legittimo diritto individuale con particolare equilibrio e sobrietà, tenendo anche conto che viviamo nell’era dei social e dell’eterna diretta (che sia a causa di un Grande Fratello o di un privato telefonino ormai onnipresente a immortalare ogni nostro starnuto...).
Non credo che si possa immaginare di risolvere la questione con qualche regoletta, anche perché rischieremmo di avvallare gli appetiti di un potere politico che va cercando pretesti per silenziare e burocratizzare la magistratura, cavalcando la retorica complottista di giudici presunti politicizzati che cercherebbero di ostacolare il coraggioso manovratore.

La realtà è che ben pochi sono i cittadini che hanno la voglia e la pazienza di approfondire e capire il merito della questione; temo che la stragrande maggioranza della massa non abbia la fiducia per poter ascoltare una vera discussione e si limiti o a disinteressarsi della questione o ad applaudire allo slogan della parte politica di appartenenza, in una logica di tifo che fa del pregiudizio il piedistallo su cui ergersi per giudicare cose che non si conoscono e tanto meno si capiscono (come un tifoso che dall’ultima fila del terzo anello vede cadere l’attaccante della propria squadra a 200 metri di distanza e urla immediatamente al rigore, immaginando che l’arbitro, a pochi metri dai fatti, decida in mala fede nella misura in cui non gli dà ragione...).

Se questa è l’umore della piazza, noi magistrati il problema di recuperare credibilità e fiducia e di proteggere la nostra autorevolezza dobbiamo porcelo, proprio esercitando le virtù dell’equilibrio e della sobrietà.  
Dovremmo evitare tutte quelle situazioni e iniziative che (ex ante...) si prestano ad essere bollate come faziose e che possono ledere alla nostra immagine di imparzialità. E questa attenzione si impone con maggiore prudenza e rigore se esiste la possibilità che ci dovremo pronunciare nell’esercizio della nostra giurisdizione su quel particolare argomento. 
L’astratta tutela a oltranza della nostra libertà individuale di manifestare il pensiero rischia di affermarsi a discapito della fiducia e della credibilità della magistratura, che deve cercare di resistere allo tsunami dei tweet, dei tiktok, dei talk show urlati, degli haters, della propaganda social e delle battute da bar... (che ci sono sempre state, ma che non venivano viste e condivise da centinaia di migliaia di persone in poche secondi)

L’ex magistrato ed ex onorevole Luciano Violante ha osservato in questi giorni che la collega non avrebbe dovuto partecipare all’evento in questione. Non è forse un caso che lo dica proprio colui che aveva teorizzato che i magistrati dovessero essere leoni, ma leoni sotto al trono (e quindi ubbidienti e al servizio del superiore potere politico). Credo che Trump e Netanyahu sarebbero d’accordo lui..

Ebbene, questo paradigma è incostituzionale, perché i giudici e i pubblici ministeri devono essere soggetti solo alla legge e hanno anzi il dovere di vigilare che tutte le leggi rispettino i principi costituzionali, cui anche il governo e la maggioranza devono ossequio. Per svolgere questo delicato e importante ruolo, la magistratura dovrà però saper difendere (o forse dovrei dire riconquistare) la propria credibilità agli occhi dei cittadini, anche a costo di qualche esercizio di prudenza in più.

giovedì 8 settembre 2022

Cronache dalla trincea del codice rosso: tra storytelling, contrasto e prevenzione

 

Occupandomi ogni giorno da molti anni di contrasto alla violenza di genere, mi lascia amareggiato constatare il modo in cui questo grave fenomeno viene narrato dai media. 

L'enfasi sulle storie finite male e la miscela di qualunquismo e morbosità che spesso caratterizzano questo tipo di cronaca, non solo non aiutano a comprendere cosa è accaduto e come si è giunti a quei drammatici epiloghi, ma finisce anche per alimentare (spesso molto ingiustamente) il circuito vizioso di sfiducia verso le istituzioni che rappresenta una delle ragioni che inducono le donne a non denunciare.

Sappiamo quanto una brutta notizia, che specula su un dramma e cerca un facile capro espiatorio, attiri molta più attenzione di una riflessione equilibrata che prova invece a entrare nelle pieghe del fenomeno per comprendere cosa non abbia funzionato o cosa si debba fare di più.

Sono un pubblico ministero e quindi la mia prospettiva è quella del processo penale. Limitare la discussione agli strumenti del diritto penale è però uno dei grandi problemi del dibattito pubblico rispetto a un fenomeno che ha molte sfaccettature psicologiche,  sociali culturali e anche economiche. La risposta a questo terribile problema della nostra società deve quindi essere anzitutto culturale, educativa, politica: dobbiamo prevenire mediante l'educazione e il diffondersi di una diversa culturale delle relazioni, dobbiamo promuovere l'emancipazione anche economica delle donne e le pari opportunità, dobbiamo sostenere le situazioni di disagio rafforzando le reti territoriali, dobbiamo comprendere le ragioni del diffuso abuso di alcol e stupefacenti e contrastarlo perché spessissimo alcolici e droghe sono elementi che fanno deflagrare le violenze. Immaginare di risolvere il problema aumentando le pene e usando solo la leva della sanzione penale è una grave ingenuità, utile solo alla propaganda

Tornando però intanto a ragionare nell'ambito del processo penale, va riconosciuto che non mancano gli strumenti volti a tutelare vittime e che quindi molto spesso possiamo avere la capacità di fermare ovvero impedire ulteriori fatti di stalking o maltrattamento... ma resta il fatto che il procedimento penale riguarda l'accertamento e la punizione di fatti di reato già commessi e non è uno strumento volto alla prevenzione (perlomeno fino a che non si realizzerà la cupa profezia di "minority report").

Può accadere che, nonostante sia stata presentata una denuncia, non ci siano però i presupposti per attivare una misura cautelare, ovvero una misura di protezione della vittima e di limitazione dell'indagato (tipicamente un divieto di avvicinamento o un allontanamento dalla casa famigliare, sino ad arrivare agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare in carcere nei casi più gravi). Se non abbiamo raccolto gravi indizi di colpevolezza e se non vi sono elementi concreti che fanno ritenere attuale un rischio di reiterazione, non possiamo infatti ottenere misure. Vero è che la sola dichiarazione della vittima può essere sufficiente, ma in molti altri casi è indispensabile consolidare tale versione con riscontri obiettivi o testimoniali. Soprattutto non sempre nella vicenda emergono elementi che consentano di ritenere concreto e attuale il rischio di reiterazione. 

Va tenuto presente che in un ufficio come Bologna, tanto per fare l'esempio che conosco, ogni giorno arrivano mediamente 7/8 notizie di reato relative a maltrattamenti, stalking e altri reati di codice rosso. Il nostro dovere è occuparci di ogni fatto con attenzione, verificarne la fondatezza e filtrarne anche la gravità (come in un triage del pronto soccorso): le misure cautelari, rappresentando delle limitazioni della libertà di persone indagate ancora presunte non colpevoli (sulla base di un principio costituzionale essenziale del nostro stato di diritto), non possono applicarsi automaticamente o in modo indiscriminato (sarebbe come pretendere che tutte le persone che si recano al pronto soccorso debbano essere trattate con la medesima urgenza e coi medesimi strumenti; il risultato sarebbe quello di non curare adeguatamente i casi, ingolfando il sistema e producendo inefficienze ed errori).

Questo non vuol dire affatto che all'interno del procedimento penale non vi siano già degli ottimi strumenti per intervenire: infatti ogni settimana eseguiamo numerose misure cautelari e trattiamo positivamente decine di denunce anche senza fare arrivare a limitazioni preventive della libertà personaleNella mia esperienza quasi ventennale ho trattato migliaia di casi e non mi è mai capitato che accadesse l'irreparabile durante l'indagini e questo vale per la stragrande maggioranza dei magistrati impegnati su questo fronte insieme alle forze dell'ordine.

C'è un enorme foresta che cresce, fatta di procedimenti positivi, nei quali la vittima trova una risposta e le violenze vengono interrotte e poi sanzionate. Queste storie non vengono quasi mai raccontate, anche per ragioni di segretezza investigativa oltre che di privacy... Limitare la narrazione collettiva e pubblica alle vicende finite male offre una visione deformata e mistificante del lavoro di contrasto che viene fatto e che è nella gran parte dei casi positivo e tempestivo.

Ogni femminicidio è inaccettabile e resta una ferita per la società e per il mondo della giustizia e delle forze dell'ordine. Ogni donna maltrattata deve interpellare la nostra coscienza su cosa possiamo fare di più e meglio per proteggere in particolare il mondo femminile. Però non cadiamo nell'errore del puntare sempre in automatico il dito contro qualcuno, perché così facendo spesso commetteremmo un errore e faremmo qualcosa di inutile per un verso e dannoso per un altro.

Potremmo commettere un errore perché, come detto, non sempre abbiamo gli strumenti per impedire nel contesto delle indagini eventi anomali e che non sono stati anticipati da segnali di allarme che ci hanno consentito di intervenire.

Faremmo qualcosa di inutile e dannoso perché diffondendo sfiducia e alimentando l'idea falsa e qualunquista che tanto le cose non funzionano, che non serva denunciare, che giustizia e forze dell'ordine non intervengono e non proteggono... stiamo facendo sentire più vulnerabili e isolate le vittime, che quindi non troveranno il coraggio di denunciare e chiedere aiuto. 

Ci possono essere dei casi di errore umano e di scarsa professionalità e quelli vanno naturalmente individuati, stigmatizzati e vi devono essere le conseguenze previste dall'ordinamento per chi ne ha responsabilità. Questo però non può travolgere il lavoro che ogni giorno centinaia di magistrati e migliaia di poliziotti, carabinieri, avvocati e altri operatori sociali mettono in campo per aiutare, sostenere, proteggere, intervenire. 

Come nel bullismo, spesso la sensazione di debolezza e di inevitabilità che travolge la vittima è un fattore determinante perché si protragga e si aggravi il contesto di violenza e prevaricazione. 

Dare fiducia che invece esiste una via d'uscita, che vi sono strumenti di protezione efficace, che lo Stato c'è e non si è soli: tutto ciò è determinante per far emergere le storie sommerse di violenza, intervenire, proteggere la persona offesa e sanzionare il colpevole. 

Cerchiamo di informarci e di informare allora in modo intelligente e completo, analizzando e non semplicemente puntando il faro su ciò che può far aumentare il numero di clic. In questo modo crescerebbe la consapevolezza e la comprensione del problema e da un dibattito più lucido e completo potranno scaturire strategie migliori (non solo nell'ambito del processo penale...!) per non lasciare sola nessuna donna vittima di violenza.


giovedì 9 giugno 2022

Quello che penso dei referendum sulla giustizia

 

Il 12 giugno si potrà votare referendum sulla giustizia approvati dalla Corte Costituzionale. 

A questo link trovate una sintetica ed efficace sintesi dei complessi quesiti al vaglio: 

https://www.sistemapenale.it/it/scheda/referendum-giustizia-guida-lettura-quesiti


Credo che il compito della magistratura in un simile frangente della vita democratica sia anzitutto (se non esclusivamente) quello di informare e spiegare significato e ricadute dell'eventuale abrogazione, affinché i cittadini possano prendere una scelta consapevole.


Per questo, sollecitato anche dalle richieste di un parere di tanti amici che comprensibilmente faticano a orientarsi su questi temi, provo qui a fare una sintesi delle questioni da decidere.


1) primo quesito, scheda rossa: abolizione legge Severino

Votando sì verrebbero abrogate le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali in seguito a condanne anche soltanto di primo grado per alcuni gravi reati.

Tale norma era stata sospettata di incostituzionalità per violazione del principio di presunzione di non colpevolezza, venendo tuttavia sempre salvata dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto tale disposizione diversa da una sanzione, trattandosi di tutelare i requisiti di dignità ed onore che, anche ai sensi dell'art. 54 della Costituzione, i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche devono garantire.

L'abrogazione travolgerebbe anche l'incandidabilità dei politici condannati in via definitiva.


2) secondo quesito, scheda arancione: limiti all'utilizzo delle misure cautelari

I proponenti sostengono che sia un quesito contro gli abusi, ma ciò mi pare uno slittamento di senso, perché in realtà vengono cancellate delle norme e non certo l'abuso di queste, che dipende dal merito e dai casi specifici.

Premessa: le misure cautelari non sono e non devono essere anticipazioni della pena, ma limitazioni (eccezionali) della libertà dei soggetti indagati o imputati (ancora presunti non colpevoli) quando ricorrono due presupposti:

a) gravi indizi di colpevolezza per reati di una certa gravità stabiliti dal legislatore

b) sussistenza di esigenza cautelari

Le esigenze cautelari sono di tre tipi:

i) inquinamento probatorio (caso assai raro)

ii) rischio di fuga (che ricorre già con più frequenza, ma difficilissimo da ipotizzare e dimostrare a carico dei residenti in Italia)

iii) rischio di reiterazione di delitti della stessa specie --> questa è l'esigenza cautelare che sostiene la stragrande maggioranza delle misure che oggi vengono disposte

Il quesito vuole cancellare la possibilità di usare misure cautelari (custodia in carcere, arresti domiciliari, allontanamento dalla casa famigliare, divieto di avvicinamento, ecc...) per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, di eversione o commessi con armi o con violenza.

In pratica non sarà possibile disporre alcuna misura in una serie molto vasta di casi. Ecco qualche esempio dei casi più comuni che potremmo immaginare:

- furti (compresi quelli in abitazione) e altri reati contro patrimonio (salvo solo le rapine commesse con armi o violenza)

- spaccio di stupefacenti anche in quantità rilevanti (se non ricorre l'associazione)

- reati contro la Pubblica Amministrazione (corruzione, concussione, ecc..)

Vi è la possibilità che si ritengano non applicabili le misure cautelari anche ai casi di maltrattamenti e atti persecutori che non siano commessi con violenza fisica, sebbene si possa ricorrere a un concetto di violenza di genere più ampio; l'effetto concreto dovrà eventualmente misurarsi con la giurisprudenza.


3) terzo quesito, scheda gialla: separazione delle funzioni

Oggi la Costituzione stabilisce che si diventa magistrati tramite un unico concorso pubblico: successivamente il magistrato potrà scegliere se esercitare le funzioni di giudice (penale o civile) ovvero di pubblico ministero (colui che fa le indagini e sostiene l'accusa nei processi).

Oggi è possibile cambiare le funzioni, seppure con una serie di limitazioni: si possono cambiare per massimo 4 volte (ma la riforma Cartabia si propone già di ridurre le chance si cambiamento ad una sola!), devono passare almeno 4 anni tra un cambiamento e l'altro e tendenzialmente è necessario cambiare regione per poter cambiare funzione. Anche in virtù di questi numerosi paletti oggi esistenti, già adesso il cambiamento di funzioni è un fenomeno estremamente ridotto: negli ultimi 16 anni solo 39 colleghi hanno cambiato le funzioni due volte e solo un collega l'ha fatto quattro volte.

Chi sostiene la separazione delle funzioni mira alla separazione anche delle carriere, che dovrebbe vedere una modifica della Costituzione, ritenendo che solo questo assicurerebbe un giudice terzo. Chi difende le carriere unite sottolinea che è importante che anche il pubblico ministero condivida una forte cultura della giurisdizione e non finisca per perdere la sua indipendenza, che è posta a tutela dell'uguaglianza dei cittadini e non quale privilegio dello stesso.


4) quarto quesito, scheda grigia: valutazione professionale dei magistrati

Il quesito vuole consentire che anche gli avvocati partecipino alla valutazione dei magistrati nell'ambito dei Consigli Giudiziari, i quali redigono pareri che poi vengono definitivamente approvati dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Tutti i magistrati sono valutati ogni 4 anni per sette volte.

La trasparenza di queste valutazioni è sicuramente un'esigenza sentita e la ritengo un valore. Quello che mi preme sottolineare, lavorando da due anni proprio nel Consiglio Giudiziario di Bologna, è che il timore è che non cambierà nulla con questo referendum, che peraltro determinerebbe una modifica equivalente a quella che anche la riforma Cartabia prevede.

Dico questo per due ragioni:

- già adesso l'avvocatura potrebbe fare segnalazione di criticità relative al singolo magistrato, ma questo non avviene mai; la presenza al momento della valutazione allora rischia di assumere un significato più simbolico (o ideologico?) se non contribuisce ad aumentare gli elementi di conoscenza

- anche oggi il problema di far emergere gli eventuali profili critici di un magistrato non è tanto legato alla mancanza di volontà dei colleghi che devono valutare (che pure può essere un fattore, anche se non dovrebbe...), quanto soprattutto alla mancanza di fonti di conoscenza formali e utilizzabili che possano dimostrare quanto si vuole evidenziare

Il referendum, così come la riforma Cartabia, si pongono un obiettivo anche condivisibile, ma la soluzione è ideologica e semplicistica, mentre il tema delle valutazioni andrebbe affrontato nella sua complessità e con ben altre strategie.

Rischiamo, come al solito, di cambiare tutto perché le cose restino in realtà come sono (la valutazione dei magistrati introdotto dal 2006 è oggi un grande fardello burocratico che non produce gli effetti promessi e sperati)


5) quinto quesito, scheda verde: elezione dei componenti togati del CSM

Il referendum vuole abrogare l'obbligo di presentare 25 firme per potersi candidare al Consiglio Superiore della Magistratura (l'organo costituzionale di autogoverno).

L'obiettivo è quello di diminuire la forza delle correnti interne alla magistratura. Difficile che tale obiettivo possa realizzarsi: se un magistrato non riesce nemmeno ad avere il sostegno di 25 firme, come potrà essere eletto al posto di candidati che provengono da gruppi organizzati e radicati?

Gli scandali legati al CSM ci sono stati e sono una grave macchia di credibilità, ma non credo che possiamo pensare di risolverli così ovvero limitando la libertà di associazione (che è garantita dalla Costituzione).

Sono persuaso che il virus che ha prodotto degenerazioni interne è il carrierismo, ovvero l'inseguimento di incarichi direttivi, laddove la Costituzione vorrebbe i magistrati distinti solo per funzioni e senza gerarchie di altro genere.


Un'ultima riflessione.

Mentre nelle elezioni politiche andare a votare rappresenta un diritto\dovere e non votando di fatto si lascia la decisione agli altri, per i referendum i Costituenti hanno volutamente posto un quorum: se non vota il 50% + 1 degli aventi diritto il risultato non avrà alcun effetto.

La Costituzione ben conosceva i rischi del populismo e delle manipolazioni di regime e voleva evitare che tramite il referendum passassero questioni che non fossero effettivamente sentite come di ampia e grande rilevanza collettiva. Questo anche per impedire che i referendum non degenerassero in appelli a risposte binarie, poco adatte a risolvere questioni complesse e che richiedono discussioni approfondite e riforme articolate.

Per questo è legittima anche l'opzione di chi, ritenendo che si tratti di quesiti non chiari e non adatti allo strumento referendario, scelga di non partecipare al voto per non contribuire al raggiungimento del quorum.


La speranza è che, al di là degli esiti del referendum, si colga questo passaggio e la discussione sulla riforma Cartabia per un forte coinvolgimento dei cittadini sul tema giustizia, che da troppo tempo attende risposte efficaci e credibili.


sabato 30 aprile 2022

Recuperare credibilità e diventare parte del cambiamento

Scioperare o non scioperare contro la riforma della giustizia appena approvata dalla Camera?

Io sono convinto che sarebbe un errore scioperare, un ulteriore passo verso l’isolamento dal Paese. Un errore di metodo anzitutto, perché non aiuterebbe a spiegare le nostre ragioni fornendo facile occasione ai detrattori per strumentalizzare la polemica. Ma anche un errore di merito e di contenuto, perché la riforma ha limiti e difetti, ma non possiamo negare che affronti dei problemi reali.

Il rischio della magistratura non è semplicemente di non essere compresa, ma che gran parte dei cittadini pensino di aver invece capito benissimo, perché la perdita di fiducia e di credibilità è una ferita aperta ed è sotto gli occhi di chiunque li voglia aprire.

Il problema è che la fiducia non è un optional per chi fa il mestiere del giudice o del Pubblico Ministero; la credibilità per noi è una necessità.

Le leggi, così come le sentenze, sono pezzi di carta, inermi: è vero che ci sono i modi per far sanzionare le violazioni e far eseguire le decisioni, ma un sistema funziona e regge solo fino a quando la maggioranza è persuasa della sua legittimità.

Indubbiamente la riforma che verrà ora discussa in Senato presente dei rischi e delle criticità… soprattutto quelle magistralmente spiegate da Ferrarella in un articolo dei giorni scorsi sul Corriere della Sera: enfatizzare i numeri e il dato della tenuta delle decisioni e delle indagini può spingere verso un modello di magistrato timido, conformista, che cerca il consenso invece della verità processuale, che non osa innovare l’interpretazione, che evita l’indagine scomoda. In definitiva, un burocrate dedito al mero mantenimento dello status quo e non l’espressione autonoma e indipendente del potere giurisdizionale, un attore vivo della realizzazione del disegno costituzionale.

Questo grave rischio va spiegato e denunciato, ma è anche vero che il presente è pieno di problemi evidenti che da troppo tempo non abbiamo dimostrato di saper o di voler risolvere: il carrierismo, le degenerazioni correntizie, l’incapacità di far emergere le criticità al momento delle valutazioni di professionalità, un’organizzazione non sempre all’altezza…

Con atteggiamento di retroguardia, ci nascondiamo dietro a grandi ideali, dimenticando di assumerci le nostre responsabilità e di affrontare davvero le criticità che hanno minato la nostra credibilità.

Il “NO” non basta più… ed era prevedibile che intervenisse la politica, questa volta sulla spinta del PNRR.

Penso che parte della politica creda davvero che la riforma possa migliorare le cose, anche se certamente una componente non trascurabile è mossa anche da intenti punitivi e da un desiderio non troppo celato di “rimettere al suo posto” la magistratura dopo una lunga stagione di espansione della sua forza di intervento (o presunta tale).

Di fronte a questo scenario sono convinto che l’unica strada sia quella di raccogliere la sfida e portare proposte concrete, comunicando ai cittadini che non abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità e però chiediamo anche di essere messi in condizione di lavorare meglio e di difendere la nostra autonomia e indipendenza, perché queste ultime non sono privilegi di una casta ma garanzie indispensabili per i cittadini e per la piena affermazione dello stato di diritto.

E allora, invece dello sciopero, apriamo i nostri uffici, incontriamo i cittadini, dialoghiamo con l’avvocatura e tutta la società, spieghiamo le peculiarità e difficoltà del nostro lavoro, facciamoci promotori di proposte coraggiose di apertura e rinnovamento.

Qualche esempio?

1) accogliamo l’ingresso degli avvocati anche nelle sessioni dei Consigli Giudiziari che si occupano di valutazione di professionalità dei magistrati, chiedendo al tempo stesso che vengano ampliate e stimolate le fonti di conoscenza, perché altrimenti non riusciremo a far emergere il vero profilo

2) chiediamo noi per primi i numeri sulla tenuta delle nostre decisioni e delle nostre indagini nei tre gradi (la vera assurdità è che non li abbiamo mai avuti!), ma non (sol)tanto per dare un ulteriore elemento di conoscenza nel contesto della valutazione, ma soprattutto per conoscere meglio il nostro lavoro e migliorare con l’esperienza

3) chiediamo che venga smantellato il sistema di carriere interne che sta svuotando di significato l’enunciato costituzionale per cui dovremmo distinguerci solo per funzioni: meno posti direttivi e semidirettivi e soprattutto un tendenziale obbligo di tornare alle funzioni “semplici” dopo aver dato il proprio servizio negli incarichi dirigenziali e organizzativi

4) apriamo una grande discussione per migliorare il percorso che porta alla selezione e all’accesso in magistratura; oggi ci sono a mio modo di vedere almeno due grandi problemi da risolvere:

o   i tempi verso il traguardo finale del concorso sono tali da dare un vantaggio a chi proviene da famiglie più agiate che si possono sostenere gli studi e poi altri anni di tirocinio senza guadagni e con entrate del tutto modeste e precarie

o   la selezione è tutta focalizzata sulla preparazione giuridica e ciò non consente di esaminare altre doti essenziali per essere un buon magistrato, quali l’organizzazione, l’equilibrio, la capacità di lavorare in gruppo, ecc… (le c.d. “soft skills”)

Si potrebbe andare avanti ma sto già abusando della pazienza del lettore. Quello che però non possiamo fare è stare fermi o tornare indietro.

Il Paese ha bisogno di una magistratura responsabile, moderna, efficiente e assolutamente indipendente e autonoma dal potere politico.

Lo scandalo “Palamara” ha messo giustamente al centro le degenerazioni del nostro sistema di autogoverno, ma è allarmante notare che, sull’altro versante, la politica non abbia invece fatto alcun esame di coscienza, nonostante il fatto più grave emerso fosse probabilmente quello per cui alcuni politici stavano cercando di condizionare la scelta del dirigente della Procura di Roma…

Basterebbe questo a ricordarci e dimostrare quanto sia fondamentale garantire una piena autonomia di tutta la magistratura, compresi i pubblici ministeri, che sono il motore della giurisdizione penale e che devono essere liberi di fare un rigoroso controllo di legalità verso ogni forma di potere corrotto o criminale.

Ma per essere liberi, dobbiamo essere credibili e responsabili.

Perché “la libertà aumenta la responsabilità” (V. Hugo)

martedì 12 aprile 2022

Tra cattive riforme e difesa dello status quo

 

La pagella del magistrato preoccupa e ha tutto il sapore dell’ennesima riforma punitiva e frutto di sfiducia verso la magistratura.

Sento che dentro l’Anm monta la protesta e si parla anche di sciopero.

Vero è che da anni si cumulano provvedimenti che vanno limitando l’autonomia e l’indipendenza e che rischiano di spingere, culturalmente oltre che tramite le norme, verso un modello di magistrato burocrate, che per non rischiare farà solo le indagini comode e prenderà solo le decisioni scontate, un magistrato preoccupato più della sua tranquillità e magari concentrato sulla sua carriera.

È un rischio che aleggia da tempo e che non va sottovalutato.

Tuttavia mi sembra che come magistratura ci muoviamo ancora una volta tardi e solo in difesa (viene da pensare che davvero il calcio sia un’immagine del Paese..).

Non che non siano state fatte anche dall’ANM varie proposte in questi anni, ma non è un caso o un complotto se veniamo visti come una corporazione che fa battaglie di retroguardia, unita solo sui NO difensivi, ma incapace di farsi portatrice di una strategia vera di riforma interna, di modernizzazione e di responsabilità.

Prendiamo il tema delle pagelle e della verifica della tenuta dei processi, cartina tornasole della qualità del bravo o cattivo magistrato.

Il tema richiederebbe ben più spazio, ma è intuitivo a chiunque frequenti le aule di Tribunale che la tenuta dei provvedimenti di un magistrato (ovvero il fatto che le richieste o le decisioni vengano confermate e diventino definitive) è un indice importante, seppure non l’unico e nemmeno sempre totalmente affidabile.

È noto che ci siano materie strutturalmente più difficili e con un maggiore rischio di perdita della forza delle prove in dibattimento rispetto al momento delle indagini: penso ai maltrattamenti (con le tante ritrattazioni delle persone offese che si riconciliano con il loro carnefice) o ai reati contro la pubblica amministrazione, processi densi di trappole in fatto e in diritto.

Naturalmente quei numeri non devono esaurire la valutazione del lavoro di un magistrato, ma sono una realtà con cui fare i conti e che può segnalare anomalie e problemi.

Dietro questa complessità noi ci siamo nascosti, chiedendo ai cittadini di fidarsi di noi a prescindere.

Eppure, tanto per dirne una, ogni anno le condanne per ingiusta detenzione sono costate 26 milioni di euro allo Stato (https://www.repubblica.it/politica/2022/03/26/news/errori_giudiziari_26_milioni_di_euro-342904422/): è sempre colpa di altri o di nessuno? O avremmo da tempo dovuto porci delle domande?

Temevo da anni che sarebbe arrivata una riforma punitiva se non avessimo affrontato il nodo della tenuta dei nostri provvedimenti. Siamo come medici di prima linea che non conoscono l'efficacia e gli esiti dei propri interventi.

Quei numeri dovevamo chiederli noi per responsabilità e desiderio di crescita.

Adesso ce li chiedono altri per intenti principalmente intimidatori...e ci ritroviamo incastrati in una battaglia che verrà vista come di retroguardia e di difesa corporativa, mentre nel frattempo la fiducia dei cittadini verso di noi è scesa ulteriormente.

Forse siamo fuori tempo massimo, ma è ancora fondamentale recuperare almeno la consapevolezza della necessità di una riforma e di assumerci le nostre responsabilità.

Le cattive riforme mi preoccupano. Ma più ancora mi preoccupa la difesa dello status quo.

giovedì 28 ottobre 2021

Riconciliarsi col Processo

Esco da un'udienza che mi riconcilia col mio mestiere di pubblico ministero e con un sistema processuale che non sempre riesce ad essere lo spazio in cui incarnare la sete di giustizia.
Esco rinfrancato perché quando nel contraddittorio del dibattimento si riesce davvero ad approfondire, a ragionare, ad ascoltarsi reciprocamente, allora si esce dalla logica delle parti contrapposte e dei ruoli e si apre un orizzonte più vasto.
Non si tratta di vincere o perdere, ma di sforzarsi di riflettere, di assumere diversi e nuovi punti di vista, di navigare nel vasto oceano del diritto seguendo la stella polare dei principi costituzionali.
Le sfumature del fatto e delle questioni giuridiche si moltiplicano: più conosci il caso e più studi gli istituti giuridici, più scopri che non avevi prima di allora capito molto...
Ci si sente sempre all'inizio del viaggio, dei cercatori, esploratori all'inseguimento della linea dell'orizzonte, che si sposta con noi.
Tutto questo è possibile anzitutto quando dall'altra parte c'è un difensore che con impegno e onestà intellettuale ci costringe a misurare la tenuta dell'accusa. Solo in questo confronto posso imparare, fare esperienza, approfondire, maturare una conoscenza più problematica ma non superficiale e bidimensionale della vita e della persone di cui sono chiamato ad occuparmi.
Il diritto penale può essere anche questo, anche se spesso viene indicato e vissuto (dalla politica ma a volte anche da noi magistrati e avvocati) come arena di scontro, magari ad uso delle aspettative più o meno legittime del pubblico (i cittadini).
La ricerca della verità processuale è un percorso accidentato e richiede cautela ed equilibrio oltre che professionalità.
La decisione che scaturisce da un confronto serrato ma schietto, da un dialogo franco e costruttivo: questa decisione potrà avvicinarci di un piccolo passo all'idea di giustizia che ci muove.
Ricordando che dietro ad ogni persona è ad ogni vicenda, talvolta drammatica, che ricostruiamo in udienza, ci sono realtà più complesse di quelle che le nostre norme, pur bene interpretate, possono cogliere. E per affrontare queste sfide il processo penale può essere solo una tappa.

giovedì 5 agosto 2021

Riforma della Giustizia Penale: andare oltre i capri espiatori

La riforma della giustizia penale sembra vicina a diventare legge, tra compromessi, critiche, necessità e speranze.

Vero: le possibili riforme utili potevano essere molte altre: 

- rimuovere il divieto di reformatio in peius (che garantisce a chi appella di non avere esiti peggiori del primo grado se non c'è, come non c'è e non può esserci sempre, l'appello incidentale del PM), misura che avrebbe fortemente disincentivato appelli pretestuosi fatti solo per ottenere qualche attenuante ovvero per ritardare il passaggio in giudicato

- allargare lo spazio di operatività del patteggiamento, oggi assurdamente limitato alle pene sino a 5 anni, costringendo a fare processi comunque delicati nei quali non vi è nulla di più da accertare o approfondire

- semplificare le regole sulla competenza territoriale, che oggi - in nome del principio astratto del giudice naturale - finiscono per disintegrare indagini connesse e moltiplicare i dibattimenti e i costi da sostenere 

- puntare sul processo in presenza e a quel punto semplificare tutte le notifiche successive alla prima

- innovare il sistema sanzionatorio, rendendolo più adatto alle specifiche responsabilità e alle finalità educative

- depenalizzare e semplificare, così da investire nel dibattimento solo per vicende davvero meritevoli

...la lista dei desideri da inviare a Babbo Natale è sempre facile da scrivere e riempire, ma naturalmente bisogna fare i conti con i necessari (stavo per dire inevitabili) negoziati della politica, che finiscono per essere guidati da logiche di parte e di consenso e non da un confronto equilibrato su come far funzionare meglio i processi.

Perché certamente il problema della giustizia troppo lenta o a velocità troppo diverse a seconda dei casi e dei luoghi non è un problema da poco e da tempo mina la credibilità del sistema, che invece può reggersi solo sulla fiducia.

Oggi quella fiducia il sistema l'ha in gran parte perduta e purtroppo è gravemente (e ahimè giustamente) incrinato anche il prestigio della magistratura

Ci sono molte spiegazioni e molti fattori da considerare per comprendere le ragioni dell'irragionevole durata di troppi processi: gli organici degli uffici, le scoperture, la mancanza di personale amministrativo e di risorse, la procedura a volte inutilmente bizantina, i carichi di lavoro particolarmente elevati specie in alcune zone...

Tutto vero anche questo. 

Tuttavia sono convinto che le cose potrebbero (e dovrebbero) migliorare anzitutto attraverso la diffusione e l'implementazione delle più virtuose organizzative (negli uffici collettivamente e da parte dei singoli magistrati) nonché recuperando professionalità.

Voglio dire che se è vero che noi magistrati noi siamo nè gli unici nè probabilmente i principali responsabili delle lentezze e delle inefficienze del sistema, è però vero anche che avremmo le capacità e le possibilità di risolvere o perlomeno gestire e contenere moltissimo i grandi problemi che affliggono la giustizia penale (questa conosco e di questa parlo, non potendomi esprimere sul settore del tutto separato della giustizia civile).

Ciò non avviene sempre per molte ragioni

- spesso indipendenza e autonomia nella giurisdizione vengono intese anche come arbitrarietà e autarchia dal punto di vista organizzativo: non c'è bisogno di vedere la giustizia come un'azienda per capire che l'organizzazione collettiva e personale è alla base della gestione di un sistema così complesso e sovraccarico e i casi virtuosi di uffici che sono usciti dalle difficoltà grazie a dirigenti, magistrati e personale illuminato sono lì a testimoniarlo

- le valutazioni periodiche di professionalità dei magistrati sono un'attività seria e complessa ma che purtroppo non si sta rivelando capace di evidenziare le situazioni critiche e soprattutto i comportamenti sciatti; è, cioè, un sistema capace di sanzionare le cadute specifiche o clamorose, ma che non si rivela efficace nel prevenire e risolvere i non trascurabili casi di livello medio basso, che galleggiano appena nel grigiore dell'irresponsabilità

In tutto questo dovrebbe essere ben chiaro che i tempi della giustizia, il buon funzionamento del processo e l'indipendenza dei magistrati non sono di interesse di questa o quella categoria, ma sono beni fondamentali dell'intera collettività. Per questo è avvilente vedere che anche su questi temi vincono le posizioni ideologiche e gli slogan, ma che anche nel mondo dei giuristi le guerre di posizione, volte a cercare capri espiatori per non rimanere col cerino in mano, prevalgono.

Non dobbiamo cercare colpevoli, ma trovare soluzioni.

Altrimenti finiamo per elaborare soluzioni non ottimali o persino in parte peggiori del problema che volevamo risolvere: penso ad esempio alla pessima idea di affidare al Parlamento la decisioni sui criteri di priorità delle indagini. Si tratta di una scelta in contraddizione con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che è attributo necessario di un ordinamento che voglia sul serio impegnarsi ad affermare in concreto l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. 

In questo quadro credo che la magistratura debba per prima cosa rimboccarsi le maniche e guadarsi allo specchio con coraggio, rivendicando i propri meriti e non nascondendo le debolezze e le opacità. Penso ai dirigenti degli uffici illuminati, ai tanti singoli e ai gruppi che si prodigano per gestire carichi di lavoro difficile, penso ai pubblici ministeri capaci di investire in modo intelligente nelle indagini, facendo davvero filtro e portando in dibattimento solo fascicoli tendenzialmente completi, così da incentivare riti alternativi e abbreviare i tempi.

Non siamo sempre ineccepibili s questi fronti. Se a ciò aggiungiamo gli scandali dell'autogoverno, diventa difficile ergersi sulla cattedra e pretendere che la politica ci ascolti per produrre una riforma complessiva e razionale.

Continuo a credere nella magistratura, nelle istituzioni, nel modello di giustizia disegnato dalla Costituzione. Tuttavia, l'amarezza accumulata in questi anni mi spinge a sentirmi soprattutto responsabile per me stesso e per quello che faccio, nel lavoro, nell'ufficio e anche nell'autogoverno, responsabilità di tutti i magistrati.

E' più che mai il momento di fare il proprio dovere fino in fondo e partecipare al dibattito con proposte costruttive, cercando anche condivisione nelle voci in buona fede che sono certo si trovino in tutti gli schieramenti e in tutte le categorie. Nella misura in cui sapremo farlo sono convinto che riusciremo a ovviare a molti dei problemi che affliggono la giustizia penale: non per noi stessi, ma per i cittadini tutti...e per evitare cattive soluzioni anche sul piano costituzionale e democratico.

sabato 12 dicembre 2020

Giudici indipendenti: dal Governo e dalla Piazza

La recente vicenda dell'assoluzione di un uomo dall'accusa di omicidio della moglie ha scatenato reazioni sia dal mondo politico che nell'opinione pubblica.

Come spesso accade siamo di fronte ad un corto circuito della (presunta) informazione, che, sapendo di poter colpire nel segno, ha presentato la decisione con un pericoloso mix di imprecisioni, contribuendo a suscitare la reazione del pubblico (e uso questo termine non a caso al posto della parola cittadini) e la successiva muscolare iniziativa del Ministro della Giustizia, che ha inviato degli ispettori per verificare l'accaduto.

Ma di cosa stiamo parlando?

Ecco, quasi nessuno lo sa. Di carte processuali non se ne trovano e peraltro dubito che sarebbero in molti a leggerle.

Siamo interessati a esprimere i nostri giudizi e non certo a capire e a perdere tempo con oziose questioni sui fatti e sulle regole e sui termini (sofismi da Azzeccagarbugli). Il tempo del giudizio è quello rapido dello scorrimento di una (pseudo) notizia sullo schermo dello smartphone.

L'unico passaggio noto, enfatizzato ad uso mediatico, sarebbe quello per cui i consulenti della difesa e del Pubblico Ministero avrebbero affermato, durante il dibattimento, che l'imputato “era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida”.

L'equazione ipotizzata dai media è che la gelosia sarebbe diventato il motivo dell'assoluzione, così dando la stura a vecchie categorie maschiliste, tese a giustificare la violenza dell'uomo.

A questo punto la notizia passa sullo sfondo. Il fatto è che un uomo è stato assolto dopo aver ucciso la moglie per gelosia: ora dobbiamo schierarci. O ancor meglio, indignarci... perché tutti ci sentiamo più giusti se abbiamo qualcuno o qualcosa da additare come sbagliato, perché così possiamo sfogare la nostra rabbia.

Proviamo a non cadere in questo tranello e cerchiamo di capire se il punto di partenza è corretto. Attenzione, qui non mi preme entrare nel merito della vicenda processuale (cosa che non possiamo fare per i motivi che dirò), ma affermare dei principi di metodo che sono essenziali perché il dibattito pubblico non si trasformi in una rissa o in urla da stadio.

Premessa: è stato pronunciato solo il dispositivo della sentenza, quindi nessuno conosce le motivazioni. Ecco perché dovremmo trattenerci da strepiti e illazioni e, se davvero interessati al caso e non a far risuonare i nostri (pre)giudizi, dovremmo semplicemente e sommessamente aspettare di poterle leggere. La "gelosia" non è certo citata dal dispositivo ma è un'espressione estrapolata da un contesto certamente più ampio e complesso, ovvero il dibattimento.

Detto questo, veniamo al primo vizio di questo modo di dare la notizia: è un'assoluzione perché l'imputato è stato ritenuto incapace di intendere e di volere. Non quindi un'assoluzione sul merito: è stato riconosciuto che il delitto è stato effettivamente commesso dall'accusato, ma questi non può ritenersi imputabile perché non era in grado di comprendere la situazione e determinare le proprie scelte.

Se ci fermiamo a riflettere un'istante, comprendiamo bene quanto sia importante che nel nostro ordinamento si pretenda che la sanzione penale (la più grave prevista dal sistema perché limitativa della libertà personale) può essere applicata solo se l'autore del fatto era imputabile e quindi rimproverabile.

D'altronde, cosa ci potrebbe essere di più ingiusto dal punire qualcuno che non era soggettivamente responsabile di quello che stava facendo? Altro aspetto è poi quello di come gestire il soggetto che sia prosciolto ma dichiarato pericoloso: ecco che consegue una misura di sicurezza, ovvero una misura di durata indefinita e volta a controllare e contenere e prevenire il soggetto fino a che sarà riconosciuto pericoloso. L'esigenza punitiva non prevale sul rispetto della persona e sulla correlazione tra responsabilità e sanzione.

Tutto ciò discende direttamente dai principi costituzionali di responsabilità penale personale e del fine rieducativo della pena: come potremmo perseguire la rieducazione di qualcuno che non era senza sua colpa inconsapevole e non responsabile delle sue azioni?

A questo punto gran parte delle polemiche sarebbero già smontate e la riflessione si sposterebbe al massimo sulla valutazione psichiatrica fatta nel dibattimento. Ma, appunto, nessuno di noi conosce le carte e gli accertamenti fatti dai consulenti e quindi non possiamo certo criticarne le conclusioni.

Ma ormai è partita la corsa sfrenata ad esprimere giudizi e il polverone mediatico spinge il Ministro a reagire e a inviare degli ispettori presso gli uffici giudiziari coinvolti.

Ecco che il corto circuito è completo: un rappresentante del Governo, e quindi del potere esecutivo, invia qualcuno a controllare la decisione dei magistrati, il potere giudiziario.

I magistrati sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 Costituzione), eppure dovranno rispondere agli ispettori, non si capisce bene di cosa... il tutto mentre ancora devono essere scritte le motivazioni, ovvero la spiegazione dettagliata della decisione presa.

La decisione dei magistrati non è un totem intoccabile, ma la verifica della corretta applicazione delle norme deve avvenire nell'ambito della giurisdizione, negli eventuali successivi gradi di giudizio, e secondo le regole proprie del processo.

L'esercizio della giurisdizione è l'espressione più alta dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere e tale separazione è un baluardo della democrazia e non un privilegio dei magistrati.

Il gradimento del potere o dell'opinione pubblica non sono categorie degne di un sistema giudiziario liberale e giusto.

"Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere" (Lord Bingham)

venerdì 27 novembre 2020

Elogio degli avvocati e della difesa da parte di un PM

"Ma come fai a difendere un criminale?"

Questa è la classica domanda che spesso viene rivolta ad un avvocato o anche soltanto ad uno studente che desidera diventarlo. 

Faccio il magistrato, sono un pubblico ministero e quindi sono il responsabile delle indagini e il titolare dell'azione penale; forse pensereste che anche io me lo chiedo...e invece vi sbagliate. 

Questa domanda è figlia di un grave e diffuso pregiudizio che vede il mestiere del difensore come almeno potenzialmente ambiguo dal punto di vista etico, se non peggio. Il dubbio, anzi, il sospetto nasce da almeno due gravi errori e fraintendimenti di partenza.

Prima di tutto si sta presumendo sin dall'inizio la colpevolezza di colui che viene difeso. Niente di più sbagliato, illiberale e pericoloso. E lo dice la nostra Costituzione: "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva" (art. 27).

Il giudizio di colpevolezza è l'approdo possibile ed eventuale del processo, non il presupposto o l'esito scontato. Le regole per la raccolta e la valutazione della prova non sono cavilli da Azzeccagarbugli, ma presidi fondamentali delle libertà fondamentali che fanno la differenza tra lo Stato liberale di diritto e i regimi (guardate la vicenda del ricercatore Patrick Zaki in Egitto se avete qualche dubbio su quale sia il sistema migliore in cui vivere).

Tutto il processo penale moderno nasce con l'obiettivo principale proprio di garantire i diritti di difesa dell'individuo di fronte alla forza del potere pubblico e di evitare di condannare persone che non siano responsabili al di là di ogni ragionevole dubbio (non una certezza scientifica, ma uno standard molto alto che non viene richiesto in nessun altro ambito del diritto).

Il secondo pregiudizio che fonda quel sospetto verso gli avvocati dipende invece dal fatto che si tende a identificarli con l'imputato (ingiustamente presunto colpevole, visto che giudicare ci fa sentire più sicuri e forti e invece comprendere e dubitare è attività sempre faticosa e scomoda). 

L'avvocato non difende la presunta condotta illecita, bensì garantisce il rispetto delle regole e dei diritti del suo assistito (e d'altronde i magistrati non giudicano la persona in quanto tale ma solo le sue azioni).

Vi garantisco che, anche se il mio mestiere spesso si traduce spesso nel sostenere un'accusa (anche se prima viene l'obbligo di cercare le prove anche a favore e più in generale la ricerca della verità processuale), io spero sempre di trovarmi di fronte degli avvocati professionali e attenti: so che il processo avrà uno sviluppo migliore, sarà più approfondito e il su o esito sarà più vicino a quell'ideale così irraggiungibile di giustizia che dovremmo cercare di inseguire nelle aule dei tribunali.

Chi vuole un difensore debole o intimidito non ha a cuore l'accertamento della verità e cerca solo mani libere per un comodo (e quindi spesso sbagliato) esercizio del potere di giurisdizione.

In questo periodo sto scoprendo un testo ribalta il sentire giustizialista oggi molto diffuso: "La Resurrezione", di Lev Tolstoj. Il grande romanziere russo dipinge un affresco in cui in prigione finiscono soprattutto le vittime di un sistema ingiusto e diseguale, mentre chi esercita il potere è spesso privo di sensibilità e di pietà. 

Questo il paradosso finale: "....attualmente l'unico posto che si convenga a un uomo onesto in Russia è la prigione!"

Questa frase può essere in parte una provocazione, tuttavia mi ha fatto riflettere molto e credo che sia un monito che da Pubblico Ministero mi porterò dentro: un esercizio cieco e burocrate del potere rischia di tradursi in una perpetuazione di ingiustizia se non sono garantiti i diritti di difesa e se non siamo davvero tutti uguali davanti alla legge. 

L'Italia e l'Europa del 2020 non sono la Russia di fine Ottocento: siamo pur sempre la patria di Beccaria e Calamandrei e le regole della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo sono, tra gli altri, baluardi dei diritti fondamentali, inclusi quelli di difesa.

Quello però che si rischia è uno scollamento tra il sentimento popolare diffuso e le regole del diritto: quando i principi non vengono più compresi e condivisi si crea una pericolosa frattura che produce un approccio non equilibrato verso i temi della giustizia e semina sfiducia verso le istituzioni e la legalità.

Occorre un dibattito pubblico che cerchi di fare appello alla ragione e non ai peggiori sentimenti che ci abitano (e che ci agitano tanto di più in tempi così precari e difficili come quelli che stiamo vivendo).

Occorre vigilare e contribuire affinché anche sui media e soprattutto sui social la giustizia non sia oggetto di tifo e provocazioni, ma di approfondimento e confronto. Spesso la cronaca e il chiacchiericcio da bar cercano solo capri espiatori, mentre abbiamo bisogno di comprensione per contrastare davvero i fenomeni criminali che guastano la convivenza sociale.

Occorre infine anche che avvocatura e magistratura non siano percepite e non si percepiscano come nemici di cui diffidare. Certamente l'autorità giudiziaria ha un ruolo e delle responsabilità diverse da quelle dei difensori, ma gli avvocati incarnano le garanzie di difesa e indebolirli o attaccarli vorrebbe dire indebolire e attaccare lo stato di diritto. Un Paese con degli avvocati meno liberi è un Paese in cui rischiamo di essere meno liberi tutti.

sabato 31 ottobre 2020

Democrazia e sistemi liberali davanti al Coronavirus: una sfida da non perdere

La pandemia non è soltanto una grande questione sanitaria con enormi conseguenze economiche. Quello che sta accadendo metterà a dura prova la tenuta e la credibilità delle democrazie liberali.

Al momento abbiamo più domande che risposte, ma è chiaro che il non essere riusciti a contenere la seconda ondata è percepito da tutti come una dimostrazione di inefficienza e di inefficacia. Ovviamente non mi riferisco solo all'Italia ma a quasi tutte le grandi democrazie occidentali, che infatti adesso si trovano in molti casi sulla soglia di un altro lockdown, con tutti i suoi terribili costi economici, sociali e psicologici.

Al contrario di molti altri non ho le soluzioni in tasca e non mi riesce facile puntare il dito. 

Ci sono state probabilmente scelte tardive e sono stati commessi errori: è inevitabile discuterne e chiederne conto a coloro che la responsabilità. Tuttavia temo che la ricerca dei capri espiatori ci faccia sfuggire questioni ben più ampie e complesse e che non era ragionevole aspettarsi di risolvere in pochi mesi sotto la pressione dell'urgenza di una situazione mai vista prima.

L'Italia in particolare da troppo tempo ha smesso di investire nella scuola, come se la formazione, l'educazione e l'istruzione superiore non fossero le migliori chance per il nostro sviluppo futuro. Da troppo tempo la sanità è stato solo un costo da tagliare o un business da sfruttare. Da troppo tempo non ci sono strategie di sviluppo sostenibile e tanto meno un tentativo di ripensare la mobilità pubblica (il pil cresce di più facendo crescere la vendita di Suv o aumentando il numero di persone che si muovono con mezzi pubblici e verdi?).

Spero che quanto sta succedendo imponga a tutti noi di contribuire a un dibattito pubblico più serio e lungimirante, perché in ballo c'è un'altra enorme sfida.

Il rischio è che il 2020 - oltre ad alimentare ulteriormente divisioni sociali, diseguaglianze, paure e rabbia - ci faccia credere che le democrazie liberali non sono adatte a gestire queste emergenze. Troppi potrebbero pensare che ci vorrebbe un regime più forte, più decisionista, più repressivo per poter controllare e implementare le regole che possono garantirci salute e tranquillità.

Non è uno scambio accettabile.

Anzitutto perché il presupposto di fatto mi pare discutibile e quanto meno falsato nella percezione. Ho letto diversi reportage e articoli su come la Cina sarebbe riuscita a contenere e gestire l'emergenza ed evitare così la seconda ondata. Tra le ragioni di tale successo del modello cinese ci sarebbe la grande e invasiva capacità di controllo e repressione del regime, oltre che una più radicata disponibilità a sacrificare qualcosa di personale per l'interesse della collettività. Qualcosa di vero potrebbe esserci in tale interpretazione, ma...ho qualche domanda: 

- davvero sappiamo cosa era successo e cosa sta succedendo in quei Paesi in cui il dissenso non è ammesso e nemmeno la libera stampa?

- davvero vorremmo vivere in un regime in cui se un membro della famiglia (anche minorenne) diventa sospetto contagiato viene portato via e messo in una struttura del governo in quarantena per evitare il contagio in famiglia (grande problema della seconda ondata, a leggere gli esperti)? [https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(20)30800-8/fulltext?fbclid=IwAR18sNHcSVhvT7gDD0IynPUA-sQ8nB2SKTxj7LBcNCjFcIiQFuWNwwfKEl0]

- davvero pensiamo che i sistemi liberali non possano coniugarsi con il rispetto delle regole e la solidarietà?

Io credo che le democrazie liberali si possano salvare e possano arginare la deriva verso regimi autoritari solo raccogliendo queste sfide e alzando l'asticella. 

Il dissenso va accettato, ascoltato e incluso nel dibattito, promuovendo però spazi di confronto civili e condivisi ed isolando haters e fake news.

La stampa libera e l'informazione seria, basata sul coraggio dei fatti e sulla conoscenza, vanno sostenute e difese.

Le libertà personali vanno tutelate e non possiamo accettare ricatti dettati dal timore di qualche minaccia, vera o presunta.

Il rispetto delle regole e il senso di comunità e bene comune vanno rimessi al centro della società, superando concezioni miopi e iper-individuali concentrate sul successo personale.

Il progresso ed il benessere saranno per tutti o non ci saranno del tutto.