"the problems we all live with" di norman rockwell

venerdì 27 novembre 2015

COSA CHIEDIAMO ai GIUDICI e COSA CI DIFFERENZIA dai TERRORISTI

L'editoriale pubblicato oggi sul Corriere della Sera, a firma di Angelo Panebianco, punta il dito contro le timidezze dei magistrati nel contrastare il terrorismo internazionale.

Riporto alcuni passaggi illuminanti (per così dire...) del ragionamento adottato, che prendono spunto dal fatto che un Giudice per le indagini preliminari ha ritenuto di non convalidare un arresto di presunti jihadisti: 
"Il giudice conosce le carte e noi no. Forse ha ragione. I precedenti però non sono incoraggianti"

Sulla scorta di questa allusiva affermazione si citano dei casi in cui in passato la magistratura si sarebbe dimostrata troppo morbida, danneggiando così la lotta al terrorismo.

Panebianco in altri termini chiede alla magistratura di assumersi una responsabilità ulteriore nei procedimenti che riguardano presunti terroristi: non solo e non tanto l'accertamento dei fatti e delle responsabilità secondo le regole del processo...ma dimostrare una sensibilità diversa così da non rischiare di apparire deboli verso i terroristi. 
Il che, per uscire dalla retorica, si tradurrebbe in condannare o applicare misure cautelari anche quando gli standard probatori stabiliti dal legislatore non lo consentirebbero...

Si tratta a mio avviso di una posizione molto pericolosa, seppure espressa e inquadrata con toni apparentemente istituzionali.
In tale visione la giurisdizione è la prosecuzione della prevenzione con altri mezzi, si riduce a strumento del potere politico nella lotta (legittima) al terrorismo.

Ma il processo penale è uno strumento delicato è regolato proprio per evitare che il singolo individuo divento strumento di abusi del potere: le libertà individuali sono sacre nel nostro sistema giuridico (per fortuna) e quindi esse non possono essere sacrificate per mandare messaggi politici o per non indebolire questo o quella lotta dichiarata.
Questa difesa dei diritti del singolo davanti allo Stato è una delle grandi prerogative che ci deve differenziare dai terroristi e dalla loro (in)giustizia brutale e assoluta. 

I processi non si fanno col senno di poi ma con quello che si è provato dentro al processo e secondo le regole del processo.
Mi spiego meglio: è ben possibile che successivamente un soggetto si dimostri effettivamente responsabile di un certo delitto, ma questo nulla ci dice sulla correttezza o meno di un provvedimento precedente che lo aveva assolto o che non aveva applicato le misure cautelari. Solo conoscendo le carte si potrebbe verificare se anche in quel primo momento c'erano gli elementi sufficienti per fare quello che deve rappresentare un'eccezione assoluta nel sistema, ovvero la limitazione di libertà personale a carico di un soggetto ancora non condannato definitivamente.

Certamente ci possono essere delle decisioni criticabili, ma si discuta del merito e non si diffonda sfiducia in modo qualunquistico, scaricando sulla giurisdizione responsabilità che spesso stanno altrove.

Suggerisco un film a Panebianco: "Nel nome del padre", ovvero la storia di una clamorosa ingiustizia giudiziaria perpetrata nel nome della lotta al terrorismo.
Il protagonista di questa storia ispirata a fatti veri dice ad un certo punto che l'inferno è stare in prigione da innocenti (nella foto una scena degli "interrogatori" del sospettato interpretato da Daniel Day Lewis).

Non si combatte il terrorismo piegando all'opportunità politica la funzione giurisdizionale, ma semmai dando risorse a polizia giudiziaria e magistratura perché raccolgano con tempestività e professionalità tutte le prove per dimostrare la colpevolezza degli effettivi responsabili. Non chiedendo che li arrestino e condannino anche quando mancano i presupposti di legge!

L'individuo, anche il più sospetto e sgradito, non può mai essere usato per mandare messaggi comodi alla politica o populisti verso la cittadinanza e il giudice è un baluardo di questo limite al potere sovrano.

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