"the problems we all live with" di norman rockwell

venerdì 2 febbraio 2018

In difesa del dialogo

Una degli aspetti più deteriori e avvilenti del dibattito politico di questi anni ed anche di questa campagna elettorale è lo sprezzante linguaggio con cui si parla di accordi.

So bene che i comportamenti incoerenti, i compromessi al ribasso e i negoziati volti solo a conservare il potere hanno alimentato la convinzione che ogni forma di dialogo nasconda solo le peggiori intenzioni.
Questa sfiducia non è immotivata ma ci sta inducendo a pensare che la soluzione sia che chi vince prende tutto e che il confronto con chi la pensa diversamente sia solo un segno di debolezza o peggio.

La politica dovrebbe invece dimostrare che un accordo, per quanto faticoso e difficile, può essere un momento di sintesi e crescita, un mettere insieme più idee, un trovare il terreno condiviso. Anzi, la politica, quando si declina al meglio come arte del possibile e cura delle questioni che riguardano la collettività, si manifesta proprio tipicamente attraverso il confronto.

L'idea per cui ogni dialogo sia automaticamente un inciucio e un imperdonabile arretramento rispetto ai propri progetti conduce a una visione della società divisa, frammentata, in conflitto permanente, dove non si cerca il molto che ci ci potrebbe unire ma sempre quello che ci differenzia e distingue.

Fromm in "Fuga dalla libertà" dimostrò che questa dinamica è figlia del bisogno di identità, della paura che essere liberi, in tempi di cambiamento e sfide spaventose, ci renda più vulnerabili. Ma la storia europea degli anni '30 e '40 dovrebbe averci insegnato bene dove conduce questa logica identitaria e settaria, questo conflitto permanente, questo disprezzo per chi è diverso anche solo perché la pensa diversamente...

Anche l'eterno dibattito sulla riforma della legge elettorale sembra spesso polarizzato tra chi tenta di trovare una formula per far vincere qualcuno anche se non ha la maggioranza e chi tenta di non far vincere nessuno perché sa che perderà dall'altro. 
Una buona legge elettorale, invece, dovrebbe semplicemente consentire una corretta rappresentazione del panorama politico del Paese aiutando al contempo a rendere funzionali le istituzioni, ma senza forzature di quella che è la reale composizione dell'opinione pubblica.

La Costituzione è il massimo esempio del dialogo come sintesi alta e non come compromesso al ribasso: ogni articolo è figlio di una discussione profonda tra concezioni molto diverse ma che hanno saputo trovare un terreno comune attorno alle idee fondamentali di democrazia, libertà e solidarietà.

Questa capacità di dialogare e confrontarsi non è solo un metodo più raccomandabile perché siamo oggettivamente un Paese frammentato; è anche la strada maestra per costruire un progetto di comunità che sia davvero realizzabile perché in esso una vasta parte della popolazione si può riconoscere. Un progetto inclusivo e condiviso e non un'affermazione muscolare di una maggioranza (e magari di una maggioranza solo relativa in un Paese in cui il primo partito rischia di essere l'astensione).

Sono convinto che un politico sia più forte se sa riconoscere le ragioni e gli argomenti degli altri, se sa ammettere i propri i limiti e imparare dai propri errori, se sa arricchirsi delle esperienze fatte anche da chi è differente ma condivide la medesima Costituzione e vive nel medesimo Paese. Certo, c'è il tempo della polemica forte e della protesta intransigente, ma non può essere la regola, nel tentativo costante di delegittimare l'avversario politico.

Le istituzioni e la democrazia hanno un bisogno estremo di persone che, a qualsiasi partito o movimento appartengano, sappiano ascoltare, ragionare, confrontarsi nel merito e sulle idee nell'interesse della collettività.
Perché vedete, alla fine, destinatari delle scelte del Parlamento e del Governo siamo tutti noi e non solo gli elettori di chi ha vinto in questa o in quella occasione.

Recuperare questa capacità di cercare ciò che ci avvicina sarebbe decisivo per tornare a essere davvero un popolo, e non una massa spesso impaurita o arrabbiata che si muove sulla base dei propri timori e non delle speranze di costruire un futuro migliore e diverso.

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